Smart Pray

Stamattina ho partecipato alla messa di Padre Antonio Menegon. Via Facebook. Mi ha invitato Antonio e io ho invitato, a mia volta, Umberto, Lorella e Top. Era tanto che non entravo in una chiesa, entrarci in questo modo è stato curioso, e anche bello. Bello anche scambiare un segno di pace con le faccette di Whatsapp, o mettendo dei “mi piace” sui commenti degli altri.

La reclusione da pandemia porta tutti a cercare nuovi modi, inevitabilmente informatici, per continuare a fare le cose di prima, o a riprendere a fare cose che si erano lasciate da parte. Ma, forse, questa del pregare, soprattuto del pregare insieme, assume di questi tempi una qualità particolare. Non è solo una continuazione, non è solo un ritrovarsi. C’è, in fondo, una domanda di fondo che facciamo a Dio, un perchè in più da approfondire, una richiesta di aiuto particolare.

Si sta diffondendo molto questo modo di pregare. Molte sono le parrocchie che organizzano messe in questo modo. Molti i gruppi di preghiera, i rosari. Oggi ho sentito un pezzo di un’altra omelia in cui il prete parlava del “Corano Virus”, lapsus freudiano.

Alla sera alle 8 si può persino partecipare alla Preghiera di Taizè, coi bellissimi canti dei monaci, ieri mi ci sono collegato, e credo ne farò un appuntamento costante nei prossimi giorni.

In fondo, in giro è tutto un chattare, un fare video party con i vari gruppi di amici. Stiamo scoprendo questa incredibile voglia, enfatizzata dall’isolamento, di sentirsi, vedersi, scambiarsi amenità, notizie, consigli, preoccupazioni. Mi chiedo se non siano tutte altrettante liturgie.

dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono io in mezzo a loro.

Chissà, forse il suo nome può essere anche implicito.

Padre Antonio pubblica le sue omelie anche su Facebook. Alla fine questa partecipazione a distanza può diventare anche meglio, almeno per me, di quella reale. Mi dà modo di approfondire le cose con più calma.

Per esempio, in questa omelia ho notato una cosa su cui non sono troppo d’accordo. Dice ad un certo punto:

Il coronavirus, semmai, è una conseguenza del scellerato uso del pianeta e della natura da parte dell’uomo

Mi sembra un altro modo di dire che la malattia è il risultato di un nostro peccato. Un peccato di massa, o di una parte più avida dell’umanità, ma comunque un peccato degli uomini che Dio punisce. Insomma, sembra, con questo commento, smentire quello che ha detto poche righe sopra:

Oggi si sente dire in giro che questa epidemia è il castigo di Dio per i peccati dell’umanità. Questa è una bestemmia! Dio non castiga, non si vendica, Dio ama sempre e ama tutti!

Forse questa malattia dovrebbe farci capire che semplicemente non siamo i padroni di questo mondo. Siamo ospiti temporanei, e lo sono anche i virus. Anzi loro sono qui, abitavano quelle foreste, da milioni di anni prima che arrivassimo noi. Questo nostro incontro recente ha solo bisogno di un riassestamento, come quando ti trovi dei nuovi vicini di casa, o dei nuovi compagni di lavoro, e devi riprendere le misure, trovare un nuovo modo di convivere. Noi non possiamo fare del male al pianeta, si difende benissimo da solo, e lo sta facendo.

La coscienza ecologica è importante, perchè ci spinge a tenere pulito il nostro giardino, ad amarne i fiori. Non va trasformata in un nuovo senso di colpa. Il numero crescente di esseri umani sicuramente crea scompensi, ci mette di fronte a queste crisi, a chissà quante crisi future. Ci spingerà a cercare soluzioni, forse a controllare le nostre nascite, o a cercare nuovi mondi da popolare, o a stiparci in spazi più regolati, ma non possiamo usare anche questo pretesto per trovarci dei nemici. Io Dio me lo immagino come un padre che guarda i suoi bimbi un po’ discoli, che si azzuffano, che imparano, ma nessun padre dice a una parte dei suoi figli: “voi siete quelli che sbagliano, loro sono i migliori”.

L’omelia finisce così:

Forse questa epidemia ci costringe nell’isolamento e nel silenzio a riflettere sulla nostra vita, sulla verità delle nostre azioni, sul senso autentico da dare ai nostri giorni e alle nostre scelte

Bello. Aggiungerei che ci sta facendo anche trovare forme nuove di convivenza. Ci sta spingendo ad usare di più e meglio questo strumento meraviglioso che abbiamo creato. Internet. Ci aiuterà, forse, dopo un periodo buio, in cui molti di noi se ne andranno, a creare un mondo un tantino migliore.

Amen

Preferireste perdere la libertà o la privacy ?

I dati del Covid19

Che i dati di diffusione del virus siano, a voler essere ottimisti, inutili è ormai sotto gli occhi di tutti. Basta dare un’occhiata ad articoli come questo per rendersi conto che i numeri forniti ogni giorno dalla Protezione Civile sono basati sul niente.

Se i tamponi non vengono fatti a tappeto su tutta la popolazione il dato relativo ai contagiati è un non senso (soprattutto in presenza di contagiati asintomatici). Inoltre le politiche di raccolta dei tamponi sono diverse da regione a regione come spiega molto bene il Post e questo rende il dato inutile anche solo per un confronto tra i vari territori. Se si aggiunge che queste politiche cambiano continuamente l’inutilità si estende alla dimensione temporale: non ha senso neanche un confronto tra i dati della stessa regione/provincia nell’arco di più giorni.

Fatte queste considerazioni avevo ingenuamente immaginato che si potesse avere un’idea di come si sta diffondendo il contagio prendendo il dato delle morti e moltiplicandolo per 100. L’idea era di prendere per buono il dato internazionale di mortalità dell’ 1% (vista la situazione sopra questo dato è probabilmente più affidabile). Per fare questo ci si scontra anzitutto col problema che il totale dei decessi è fornito solo per regione e non per province. Poi, riflettendoci tre secondi in più, ci si rende conto che sarebbe comunque una stima fatta su basi traballanti: non sappiamo quanti muoiono di Covid perchè la classificazione (morti per/con Covid19), di nuovo, è affidata alla discrezionalità dei vari operatori, come sottolinea anche l’articolo citato sopra del Post. Sarebbe pressochè equivalente a tirare i dadi.

Quindi mi chiedo: i nostri governanti in base a cosa prendono le loro decisioni ?

Facendo coda davanti al negozietto del paese e sui social vedo gente richiedere con veemenza l’intervento dell’esercito per far rispettare le restrizioni di movimento. Sento il nostro presidente del consiglio annunciare che ci attendono misure ancora più restrittive (mentre quelle attuali stanno già distruggendo la nostra economia). Il tutto senza che nessuno sappia cosa sta davvero succedendo?

Un’utopia

Non è privo di importanza il problema della disponibilità di queste informazioni. Immaginate per un attimo una situazione diversa:

  • Immaginate che non esista più il denaro contante, e che tutte le transazioni siano quindi tracciate. Immaginate che le informazioni relative a queste transazioni siano pubbliche, disponibili su qualche sito a chiunque voglia consultarle
  • Immaginate che siano anche disponibili i dati relativi alle registrazioni sulle celle telefoniche
  • Immaginate che siano anche pubblici dati delle anagrafi: nascite e, importante in questo caso, morti. E che siano aggiornati (oggi le statistiche sulla mortalità italiana sul sito Istat sono aggiornate al 2018)
  • Immaginate che siano anche pubblici i dati relativi ai tamponi Covid19 (o quelli della prossima pandemia).

Già solo con queste informazioni chiunque, con un minimo di skill informatico potrebbe rintracciare chi in questi giorni esce di casa senza fondati motivi, chi partecipa ad assembramenti, chi, magari positivo al tampone, ha avuto contatti con chi. Con queste informazioni i governanti potrebbero prendere decisioni fondate, magari allentando le misure nelle aree a minore rischio, lasciando in questo modo respirare l’economia. Con queste informazioni le forze dell’ordine potrebbero indurre i trasgressori a comportamenti più adeguati. Ma non ce ne sarebbe nemmeno bisogno: la semplice visibilità dei dati sarebbe un deterrente sufficiente. Con queste informazioni molti di noi eviterebbero di essere reclusi in casa, magari con l’esercito per le strade.

Preferite davvero la difesa della privacy ?

Oltretutto sapendo che quei benedetti dati vengono già raccolti. Qualcuno li ha, li legge, li compra e li vende in barba a qualsiasi legge che finisce solo per rendere ogni cosa più difficile, soffocando la società col peso di una burocrazia sempre più inutile.

Davvero preferite questo ?

O forse preferireste che quei dati fossero a disposizione dei governanti ma non di tutti ? Forse avete più paura che il vostro vicino scopra quanti soldi/debiti avete, o i vostri orientamenti sessuali o politici, che di una dittatura ?

In genere le persone a cui riconosciamo un potere (i politici, i VIP in generale) sono costrette a rinunciare al proprio privato. Salgono su un piedistallo per essere radiografati da tutti. Forse costruire democrazia significa diventare tutti più visibili, esercitare la nostra fettina di potere non si può fare di nascosto.

L’amore ai tempi del Corona Vairus

Photo by Jérémy Stenuit on Unsplash

E’ un po’ che non scrivo. Sto scrivendo software: la nuova versione del Blog. Ne parlerò. Ma sentivo il bisogno di salutare l’inizio di questa Quarantena per l’Italia.

Tutto sommato mi sembra stiamo reagendo bene. Sono quasi stupito di vedere così poca gente in giro. Non credo sia tanto per la paura di essere individualmente contagiati: ho davvero l’impressione che molti stiano modificando i comportamenti individuali per far fronte tutti insieme ad un problema comune. La cosa in sè è degna di nota.

Da neo pensionato sono leggermente seccato di vedere tutti a casa: ho fatto tanta fatica per arrivarci io ed ora è moneta corrente, inflazionata.

Quanto durerà? Possiamo davvero pensare che sia un periodo breve? O pandemie come queste sono connaturate nell’eccessiva densità di popolazione e rapporti sociali?

E, virus a parte, questa eccessiva densità non ci stava dando segnali negativi anche prima? Il traffico, lo stress, l’inquinamento. Ma anche i rapporti sociali superficiali, l’ipocrisia dei comportamenti, le opinioni violente, gli odiatori, l’eccesso di informazione che non riusciamo a digerire. Insomma, non era già all’orizzonte il bisogno di cambiare il nostro modo di vivere? Il nostro modo di fare?

Leggevo poco fa, sul Foglio, la lettera di un’insegnante che raccontava i suoi sforzi di continuare a insegnare ai suoi alunni a casa. Parlava di registri elettronici, di lezioni registrate su you-tube, di interazioni via web coi suoi ragazzi. E intanto sento gli ex-colleghi parlare (e fare) di telelavoro, smartwork. Cose che si sarebbero dovute fare da tempo e ora, con questa emergenza, diventano necessità improrogabili, tutte le inerzie spazzate via in un attimo. Anche qui, come per l’aspetto biologico del virus, sopravviveranno i più adatti, forse.

Abbiamo demonizzato per anni l’isolamento personale creato dalle nuove tecnologie e ora lo imponiamo, forse è proprio quello che ci salverà.

Sento che l’aria che respiriamo è migliorata. Se ti avventuri fuori di casa, nel mio caso per fare la spesa o andare in farmacia, il traffico è diventato meno minaccioso, meno stressante.

Ma allora questa pandemia è un bene. Ci voleva proprio. Teniamocela stretta.

Non sarà facile: non riesco neanche ad immaginare come l’economia possa riassestarsi abbastanza in fretta da non creare seri problemi. Come sia davvero possibile che le merci nei supermercati continuino ad arrivare senza interruzioni se le fabbriche sono costrette a ripensare le loro organizzazioni interne per far fronte alla necessità di evitare assembramenti. C’è, poi, una massa ingente di persone il cui lavoro viene interrotto bruscamente, tutti questi negozi chiusi sono soldi in meno che girano, acquisti in meno per le fabbriche, per i trasporti. Se dura a lungo tantissimi dovranno cambiare occupazione. Chiuderanno supermercati e apriranno ditte di consegna a domicilio? Chiuderanno fabbriche di auto e nasceranno fabbriche di mascherine? Chiuderanno palestre e aumenteranno le vendite delle bici? (Sento qualche cretino che vorrebbe bloccarle, spero lo intubino in fretta).

Se i beni cominciano a scarseggiare assisteremo a una limitazione imposta ai consumi ? La tessera annonaria ? Vedremo anche noi, come i nostri nonni, il fenomeno della borsa nera ?

Chissà.

L’unica cosa certa è, come dicono i cinesi, che vivremo tempi interessanti.

Ora

Perchè non metterci qualche poesia in un blog ….

Nudo

Non più affamato

Stanco, ma non più assonnato

Guardo il sole che ride

Ride guardando la neve sui monti

Guarda la brina, sul recinto dell’orto

E ride

Guarda il mio tempo

Guarda i miei drammi passati, dimenticati

Guarda il mio ora, le ansie, le gioie

E ride

E rido anch’io, guardandolo

Solo vagamente sapendo

Perchè

Serial Bach

Sto ascoltando il preludio in Re minore del Clavicembalo Ben Temperato di Bach. Per la dodicesima volta di seguito. Ogni tanto ho bisogno di questo ascolto ossessivo. Un certo brano mi cattura e devo ascoltarlo e riascoltarlo di nuovo e ancora di nuovo, finché si sfibra, o mi sfibro io. Con questo particolare brano lo faccio di frequente.

A volte, come ora, non riascolto esattamente lo stesso brano: cerco il nome su Spotify, che mi propone una lista di interpretazioni di autori diversi e le ascolto tutte. Oggi ho cercato “d minor prelude Bach we”, nella lista c’è finito anche qualche pezzo che non c’entra, neanche Spotify è perfetto, ma, nell’insieme, ci ha dato.

Bach mi piace molto in generale. Mi sembra che faccia uno strano gioco col cervello dell’ascoltatore, con la sua percezione. Propone spesso, questo brano ne è un esempio lampante, una sequenza di note piatta, tutte di lunghezza uguale, che l’ascoltatore tende a raggruppare come sequenza di parole più lunghe, triplette di note nel mio caso. Ma il suggerimento è tenue, per cui la sequenza ABC-ABC-ABC può, ad un certo punto diventare nella tua testa BCA-BCA-BCA o CAB-CAB … e quando succede la musica cambia. La mente fluttua, si aggancia alla melodia principale e inconsapevolmente viene catturata dal contrappunto, dalla melodia dei bassi, che dopo un po’ di riconsegna a quella principale. Ẻ un giro in ottovolante, mai uguale.

Questo trasformare la sequenza monotona di note in parole mi ricorda il problema della trasmissione seriale nel mondo dei computer. Questi, al loro interno ragionano a gruppetti di informazioni, in genere byte, gruppetti di otto notine, che possono valere 0 o 1, i bit. Con otto bit si fa un byte, che può avere 256 combinazioni, 256 parole, che rappresentano di volta in volta altre cose: numeri, lettere, note, pixel in una fotografia o un video. Ma quando queste informazioni devono passare ad un altro computer bisogna metterle su un filo. Si è tentato, per un po’ di usare tanti fili, se ne uso almeno 8 il problema di cui sto parlando non si pone, il gruppetto di otto viene spedito e ricomposto nello stesso ordine. Si chiama trasmissione parallela, ma ha diversi problemi. All’aumentare della velocità di trasmissione, della frequenza, i fili si trasformano in antenne e l’informazione viene facilmente trasmessa da un filo all’altro via radio. Diventa necessario proteggere ogni filo con una gabbia che impedisca alle informazioni di uscire o entrare nel filo stesso, con conseguente aumento del costo e dell’ingombro. Per cui diventa più pratico usare meno fili. I gruppetti di otto bit vengono spediti un po’ alla volta, in sequenza, su un unico filo. Trasmissione seriale.

Ad esempio, immaginiamo di dover spedire la sequenza “ABC”. I caratteri all’interno di praticamente ogni computer di questo mondo sono codificati da una tabella detta American Standard Code for Information Interchange. In effetti oggi si usa l’Unicode, di cui però l’ASCII è un sottoinsieme. Bene, la sequenza “ABC” corrisponde, in questa tabella, alla sequenza di numeri 65,66,67, che vengono rappresentati, in pancia al computer, con la sequenza di bit 010000010100001001000011. Per cui il computer che spedisce muoverà i segnali elettrici sul filo in modo da rappresentare all’istante 0 uno zero, all’istante uno un uno, all’istante due di nuovo uno zero e così via, fino ai due uno finali. Detta così sembrerebbe funzionare, il problema è che il computer che ascolta non sa quando cominciare ad ascoltare. Su quanto dura ogni singolo bit sul filo ci si può mettere d’accordo (e non è facile), ma quando inizia il primo carattere devo dirglielo, se no l’ascoltatore potrebbe mettersi ad ascoltare all’istante 2 e ricevere una sequenza che inizia con 1000010100001001000011,che verrebbe interpretata come sequenza di caratteri incomprensibili.

Nei computer si usa qualche filo in più o altri espedienti, per trasmettere l’inizio di ogni carattere, la lunghezza di ogni bit, magari l’inizio della frase. Nella musica Bach crea volutamente questa ambiguità. E l’ambiguità stessa diventa messaggio, sembra dirci che le cose non possiamo capirle, che possiamo solo esserne parte, fluttuare con loro.

Pensando a questa strana trasmissione del pensiero che è la musica, mi viene da pensare a quell’altra forma di trasmissione, la parola. La parola scritta e quella letta. Ho finito di ascoltare “Il sistema periodico” di Primo Levi e riflettevo sulla lettura di Elio De Capitani. Bravissimo, come bravissima ho trovato Daniela Falcone, l’altra sera al Circolo dei Lettori, che leggeva le poesie di Alda Merini. In entrambi i casi però mi è venuto da pensare che forse io quei testi non li avrei letti in quel modo. In entrambi i casi per me c’era troppa enfasi, il lettore aggiungeva al testo una sua emozione, il risultato di una sua elaborazione del testo, una pre digestione che, in qualche modo mi urtava.

Quelle parole, se lette da me, sarebbero risultate più piane, più spente. Credo sia proprio del linguaggio scritto, almeno per me, per come leggo io. Le parole le faccio arrivare ad una zona particolare della mia mente senza digerirle in emozioni, come un medicinale orale (😄) che attraversa lo stomaco indenne, grazie a qualche involucro protettivo, perché è destinato a fare effetto altrove, più in profondità. Le parole, quando raggiungono quella parte della mente, fanno qualcosa, se generano emozioni sono molto profonde, quasi impercettibili alla coscienza. Omeopatiche. Diventano in qualche modo un dialogo con l’autore, davvero trasmissione del pensiero a distanza, anche temporale.

Ascoltare qualcuno, bravo, che legge e interpreta un testo, che rende teatro la narrazione, è una cosa molto diversa dalla lettura. Mi dice cose del narratore stesso, mi costringe a smontare, faticosamente, il suo operato, a riprodurre il testo piatto e risuonarlo per conto mio, riavvolgerlo in qualche capsula protettiva e inviarlo a quella zona della mente che fa queste magie, diventa insieme dialogo con l’autore e col narratore. Bello, ma un’altra cosa.

Diario di pensionato 2

Ho riesumato le cuffie Nuraphone. Le avevo acquistate diverso tempo fa, e giravano in casa da tempo, abbandonate dopo l’entusiasmo iniziale, semplicemente perché ultimamente riuscivo ad ascoltare musica solo in macchina, nel lungo andirivieni giornaliero verso Caselle.

Sono cuffie piuttosto care, si basano su un principio che ho trovato molto interessante: hanno un meccanismo di equalizzazione che adatta l’ascolto alle specifiche particolarità dell’orecchio di chi le indossa. Prima di poterle usare è necessario sottoporsi ad un processo di training in cui le cuffie capiscono come la persona ascolta. La particolarità della cosa è che eseguono questa misura senza la partecipazione attiva dell’ascoltatore. Si basano, se si crede a quanto pubblicizzato, su un principio in uso, negli ospedali per stabilire il livello di capacità di ascolto dei neonati. Questi non sono in grado di fornire al medico nessun feedback, e così si usa emettere all’interno delle orecchie dei suoni che provocano la vibrazione di qualche elemento all’interno dell’orecchio (ossicini ?) e la vibrazione di questo elemento, misurabile dall’apparecchio che esegue la misura, è proporzionale alla qualità uditiva a quella certa frequenza. In pratica si indossano le cuffie, stando perfettamente zitti e immobili, si sentono dei suoni strani, e dopo un minuto l’apposita app sul cellulare emette un verdetto, rappresentato visivamente con un simpatico diagramma, che corrisponde al proprio profilo uditivo. Il risultato, nell’ascolto musicale è notevole, sembra davvero di ascoltare musica per la prima volta nella vita.

Un’altra particolarità di queste cuffie è che hanno un sistema attivo di riduzione del rumore efficientissimo. Hanno un microfono che ascolta i rumori ambientali e li riproduce nell’orecchio sfasati di centottanta gradi, eliminandoli in questo modo completamente. Stamattina le ho usate per ascoltare un paio di capitoli de Il sistema periodico. Se ascolti del parlato, invece che musica, l’effetto della riduzione del rumore è sorprendente, fin inquietante. Il parlato ha frequenti silenzi, e durante quelli ti accorgi che sei completamente isolato dal mondo. Facevo qualche lavoro in casa, mentre ascoltavo, e non sentivo nessuno dei rumori normalmente associati con l’attività. Non sentivo il rumore che fanno i piatti o le posate mentre li estraevo dalla lavastoviglie e li riponevo nella dispensa. Non sentivo il rumore delle porte che aprivo e chiudevo, quello che fa il microonde mentre gira, al punto che andavo a guardare il display per verificare che fosse acceso. Sentivo il rumore del cuore che pulsava nelle orecchie e quello prodotto dalla deglutizione. Ho iniziato a mangiare con le cuffie e le ho tolte immediatamente: il rumore della masticazione copriva del tutto il povero De Capitani che leggeva.

Mi ha telefonato Sergio, da Follonica, rinnovandomi l’invito di andare a passare qualche giorno da lui. Ha un paio di case che affitta nella stagione estiva ai bagnanti, ora sono vuote e potrebbe ospitarmi. Mi attira molto l’idea di passeggiare sulla spiaggia d’inverno. Nelle prossime settimane farò un giretto fin lì. Sono anche incuriosito da un’altra cosa: Sergio ha un amico, ci siamo incrociati qualche volta in pizzeria ma non ne ricordo il nome, forse Stefano, che ha un hobby inusuale: possiede un metal detector è lo usa per spedizioni di caccia al tesoro sulle spiagge invernali. Sembra che trovi abbastanza spesso tesori come monetine perse dai bagnanti, una volta un anello d’oro, o altri misteri. Mi sembra in qualche modo simile alla pesca come attività: trovarsi di fronte ad una vasta estensione che contiene meraviglie, estensione di acqua o di sabbia, e sapere che sarebbe impossibile sondarla a fondo, per cui conta molto l’intuito, l’esperienza che sa cogliere dettagli elusivi, la fortuna. Mi piace l’idea del tempo trascorso in silenzio aspettando che il mondo ti sorprenda e accettando in anticipo che quel giorno scelga di non farlo. Ho visto che esistono anche progetti in rete su come costruirlo un metal detector, Stefano (?) ha riso dell’idea, forse a ragione, ma per me sarebbe un hobby nell’hobby: approfondirò.

Sto andando avanti con la messa a punto dell’ambiente per il mio progetto con clojurescript. Ho imparato qualcosina di Emacs, ma sto trovando difficoltà a trovare un punto di partenza stabile. Ẻ un mondo in evoluzione rapidissima. Esistono diversi tutorial in rete sui vari componenti da assemblare, ma mai nessuno che metta insieme i diversi pezzi nella loro incarnazione più recente. Il guaio dei tutorial ricettario, quelli che ti dicono fai questo, poi quello, non importa capire, per ora, vedrai che funziona, è, appunto, che non ti fanno capire, e che poi non funzionano. Il fatto è, che se tutto cambia continuamente, non ci si può permettere di non capire: qualsiasi tutorial, ad un certo punto non funziona ed andrebbe adattato allo stato recente di ogni componente. L’unico approccio possibile, a questo punto, è leggersi tutta la documentazione dei vari moduli, ma anche questo presenta non poche difficoltà. I progetti open-source sono un ecosistema, ognuno nasce e si modifica in risposta a qualcos’altro. Come i virus che evolvono paralleli agli organismi animali e vegetali. E sono impossibili da capire se non si conoscono gli altri componenti dell’ecosistema. É un infinito gioco di specchi, di continui rimandi, emozionante e snervante, e lento.

Serata a Torino, con alcuni ex colleghi, Antonio, Alice, Rocco, e Francesca che forse avevo intravisto nei corridoi, ma non conoscevo. C’era anche Giuliana con un altro gruppetto. Ho mangiato un ottimo panino al polpo fritto alla Pescaria in via Accademia delle Scienze, ci devo tornare. Poi siamo andati al Circolo dei Lettori, c’era uno spettacolo sulla poetessa Alda Merini, condotto da Paolo Squizzato, un prete che si occupa di arte e che avevo già visto in altre occasioni. Molto bello lo spettacolo. Raccontavano la vita della Merini e leggevano sue poesie. Bellissimo. Mi è piaciuto il fatto che questa donna amasse la vita, anche dopo periodi scurissimi, dopo tanti anni rinchiusa in manicomi. Mi ha sorpreso perché è frequente trovare persone che invece vivono di rimpianti. La mia vita è stata rovinata da questo o quello. Alda Merini sembra apprezzare anche il ricordo degli anni terribili. “Amo la vita perchè l’ho pagata cara”, fantastico.

Muoversi tra Fiorano Canavese e Torino è piuttosto scomodo. C’è qualche bus che fa servizio tra Fiorano e Ivrea, ma non fanno servizio alla domenica e l’ultima corsa da Ivrea a Fiorano alla sera parte alle 6. Il treno da Ivrea a Torino ci mette parecchio, a volte bisogna cambiare a Chivasso, e l’ultimo treno da Torino Porta Nuova a Ivrea parte verso le 10 e mezza. Insomma non si può usare per passare una serata a Torino. L’unica alternativa sembra essere l’auto, che preferirei non usare, o fermarsi a dormire lì. Ho guardato i prezzi delle camere, su AirBnb e Booking, con meno di 40 euro si può fare, un giorno ci provo. Un po’ buffo dormire in albergo a 50 km da casa, ma tant’è 😄. Ho visto che ci sono ostelli in cui un posto letto in una camera da sei persone costa poco più di venti euro, colazione compresa, è un esperienza da fare, credo siano frequentati per lo più da turisti stranieri, magari è anche l’occasione per conoscere gente interessante.

Comunque in macchina ho ascoltato ben tre capitoli de “Il Sistema Periodico”, ripeto: è un libro fantastico, mi piace questo suo amore per la scienza, per la sua chimica unito al suo occhio aperto sul mondo, sulle persone, sul momento terribile che ha vissuto: la guerra, il fascismo.

Ho partecipato, in questi giorni, a ben due riunioni della Zattera. Ẻ un associazione dei comuni della zona, Banchette, Samone, Lessolo e Fiorano. Si occupa di trasportare chi ne ha bisogno, anziani soprattutto, a fare visite in ospedale. Ho dato la mia disponibilità, sembra abbiano pochi autisti per i viaggi verso Torino, vediamo se mi chiamano qualche volta.

Mi sto informando su come allevare galline. Mi piacerebbe vederne qualcuna girare per il cortile. Ho chiesto a qualcuno che le ha: vicini, amici. Gianni mi ha prestato alcuni numeri della rivista “Vita in campagna”, con articoli sull’argomento. Sembra sia abbastanza facile. Devo costruire un gabbiotto in cortile per farcele stare di sera. Le galline si comprano a Marzo, la vicina mi ha detto che possiamo andare insieme ad una fiera, non ho capito dove. Ho tempo comunque. Ne prenderò tre. Non serve un gallo.

I fasti antichi dell’Olivetti

Photo by Les Anderson on Unsplash

Ho letto questo articolo di Veltroni sul Corriere. La storia di Mario Tchou e del primo computer Olivetti.

L’articolo è molto bello, e la storia toccante e inquietante, ma sono sempre un po’ perplesso quando sento parlare della grandezza passata dell’Olivetti.

Complotto o meno, mi viene da pensare che se bastava che morisse una persona perché morisse, sul nascere, la supremazia italiana nel campo informatico, vuol dire che quella grandezza era in quella persona, non nell’Olivetti e, meno che mai, nell’Italia.

Olivetti

Del lungo periodo trascorso in Olivetti, certo in anni già di declino, ricordo, tutto sommato, una certa mediocrità.

Eravamo probabilmente una spanna sopra al livello di molte altre realtà italiane in campo informatico, ne avevo il sentore e ne ho avuto conferma nella diaspora che è seguita alla chiusura dell’azienda, ma eravamo una spanna sotto molte realtà fuori dall’Italia.

La misura del progresso

Credo che la grandezza, in tutti i campi, soprattutto nel mondo di oggi, sia da misurare con un integrale, non con una quota: è inutile avere un pennone che svetta alto e fragile sopra una chiesetta modesta, quello che dura sono le piramidi, tutta una base che gradatamente si erge, senza aver bisogno di eccellenze individuali ed eroi.

Le nazioni che oggi sono meglio piazzate sulla scena economica mondiale sono, se ci pensate, quelle più gregarie, non quelle che esaltano l’individualismo. La Germania in Europa e tutti gli orientali.

Il problema fondamentale del nostro popolo, secondo me, sta proprio qui: da noi prosperano i furbi, non i bravi, e di base, sia quelli che prosperano che quelli che si accontentano e vivacchiano sono pigri e parassiti. Sarà il clima, il problema comune ai paesi latini, non so. Da noi quelli bravi, quelli che hanno doti naturali di qualche tipo e l’energia per metterle a frutto, diventano in breve individualisti e, spesso, prevaricatori, oppure gettano la spugna e cadono in depressione.

Aggregazione: politica e volontariato

Anche le forme di aggregazione, le manifestazioni di consenso corale, tradiscono quest’anima: da noi si scende in piazza a urlare, a distruggere. A rivendicare diritti, a rovesciare il tiranno, o, prima, quando ancora i singoli sperano in una pioggia di benefici, ad osannarlo.

Guardate la differenza, ad esempio, tra i sindacati italiani e quelli tedeschi. Lì i lavoratori hanno lottato non solo per rivendicare un miglior trattamento, ma per entrare a gestire l’azienda, per avere rappresentanza nel consiglio di amministrazione. I lavoratori hanno a cuore anzitutto che la ditta funzioni, il benessere individuale deve discendere da lì, dall’essere parte di una piramide che si alza.

Questo tenerci al sistema di cui fai parte, credo sia, o debba diventare, la vera misura del progresso. Non è il generico fare qualcosa per gli altri, che, in fondo, è un’altra forma di individualismo e pessimistica depressione. Mi rendo conto che le cose non funzionano, e ci metto una pezza. Vedo che lo Stato mangia soldi e li distribuisce ai parassiti e lascia i deboli al loro destino, e anziché tentare di cambiare le cose, aiuto, come posso, questi ultimi. Per carità, è un gesto onorevole, ma non sarebbe meglio risolvere il problema alla base ?

Da noi la politica si trasforma nell’ennesima palestra per le scalate individuali. I movimenti che ogni tanto nascono da parte di chi vede questo problema (penso al M5S e alle sardine) fanno presa solo cavalcando la furia distruttrice di chi ha risentimenti verso chi ce l’ha fatta, non diventano embrione di un modo migliore di costruire qualcosa insieme.

I partiti storici continuano a cambiare nome per accaparrare qualche illuso, ma nessuno prova a mettere in campo una scuola di comportamento e, soprattutto, meccanismi di dialogo, di confronto di idee, prima ancora che di scelta di rappresentanti.

Soluzioni ?

Non so come se ne esce, ovviamente. Non so se se ne esce.

Forse partendo dal piccolo: gruppi di amici che condividono questa tensione e cominciano a costruire piccole oasi di dialogo, condivisione, partecipazione.

Mi sembra che le sardine siano partite così, bello. Ora mi sembrano già diventate parte della maionese impazzita.

Forse ci va solo più calma.

Diario di pensionato 1

Perchè ? Boh, un po’ per me. Molto per me. Per tenere traccia del tempo che scorre, delle cose fatte e da fare, di quelle che dimenticherei, delle cose che si accavallano, i libri accumulati sul comodino. Forse per altri, se vogliono curiosare.

Ieri ho iniziato a ridipingere una porta in bagno. Inizio sempre a fare queste queste cose con manie perfezionistiche, fare le cose con calma e bene. In genere non è da me, forse è una fortuna. Comunque ho scocciato tutta la parete intorno per poi accorgermi che da un lato lo stipite ha un centimetro di distanza dal muro. Il legno che si è deformato. Riempito di stucco, oggi carteggio e dipingo, ora c’è Grazia che pulisce sotto, sembrava dispiaciuta che avrei risporcato subito dopo. Perfezionista anche lei.

Così mi son messo al PC, sto ascoltando una playlist di spotify (ora c’è Pride di John Legend, molto bello). Ho questa vaga idea di scrivere un programma per la modellazione 3d: una cosa per disegnare le cose da stampare con la stampante 3d. Ma la sto prendendo da lontano. Sono partito a mettere a punto il mio desktop ideale, ne ho provati diversi e ho deciso di usare Xfce, una cosa da smanettoni. In effetti sto aspettando che arrivino i pezzi del mio supercomputer, se PcTecStore si sbriga

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hanno l’ordine dal 27 e sembra tutto fermo, al telefono mi hanno detto che è perché erano chiusi nelle vacanze, ma allora non potevano chiudere il sito ?, spero non sia una fregatura. Mai più, Amazon forever.

Quando arrivano e monto il PC riinstallo tutto lì, con Xubuntu che ha Xfce di serie.

Come linguaggio vorrei usare clojurescript. Mi sembra unisca due cose molto belle: Clojure, che è un Lisp rimodernato e davvero piacevole da usare (programmare deve anzitutto essere divertente, il cervello funziona mille volte meglio quando fai qualcosa che ti piace) e javascript che è ormai il linguaggio per antonomasia, quello in più rapida evoluzione, quello per cui trovi librerie per fare qualsiasi cosa. In particolare la libreria tree.js mi sembra interessante per quello che voglio fare.

Ma, come ho detto, la sto prendendo con calma, parto dall’editor da usare: ne ho provati diversi e ho, quasi deciso di usare Emacs. Il motivo è che una delle potenzialità più importanti di Clojurescript è il REPL, un ambiente che ti permette di interagire col programma in esecuzione, poter modificare un programma mentre sta girando velocizza in modo spaventoso lo sviluppo. È la stessa cosa che succede nella la scrittura di un testo, o nel dipingere: chi scrive non sa mai bene cosa deve venire fuori, è un processo interattivo, cominci a scrivere delle cose, hai solo un’idea di massima, e mentre scrivi e rileggi le cose prendono una loro forma, il testo si scrive da solo e tu gli vai dietro, cerchi di restare sul sellino. Magari provi a dire al testo “ma io volevo andare là” e lui a volte ti ci porta, altre ti fa scoprire paesaggi più belli. Il tempo di feedback è fondamentale perché si inneschi questo processo: se ad ogni modifica, ad ogni pennellata, vedi immediatamente il risultato, anche i programmi cominciano a scriversi da soli.

Dicevo di Emacs, interagire con un REPL è una cosa complessa e richiede molta flessibilità da parte dell’editor. Emacs sembra quello con maggior flessibilità, almeno giudicando dai commenti che vedo in rete. Il guaio è che non lo conosco granché, per cui la prima cosa che farò sarà seguire un bel tutorial sull’argomento 😄.

Data una prima mano di vernice alla porta del bagno, il risultato è che il cellulare non riconosce più la mia impronta. Pranzato col baccalà alla molisana che ho preparato ieri.

Ricetta di zia Enza per il baccalà alla molisana:

Una confezione di baccalà salato (nella mia c’erano due mezzi pesci), uva passa, 7 noci, una bustina di pinoli, mollica di pane (non ne avevo e ho usato pangrattato), fichi secchi (non ne avevo e non li ho messi), olio evo.

Mettere a bagno in baccalà per un giorno e mezzo cambiando l’acqua ogni tanto per togliere il sale, uvette a mollo per mezz’ora e poi strizzate. Si pulisce e taglia il baccalà e lo si fa a pezzetti. Teglia unta con l’olio, strato coi pezzi di baccalà, un goccio di olio sopra, a parte si fa l’intruglio con pane, pinoli, uvetta e se ci sono, i fichi tritati, un po’ di olio per inumidire il tutto, amalgamato tutto nel bimby, e versato sullo strato di baccalà (l’intruglio deve coprire il pesce), velo di stagnola sopra perché se no l’uvetta brucia. In forno a 180 per mezz’ora.

Buono, ma è venuto più secco del suo (mia zia) e meno dolce perché non c’erano i fichi, ma per qualcuno non guasta.

Iniziato il tutorial di Emacs, veramente bello. Il concetto di base è che che l’interfaccia uomo macchina realizzata col mouse, benché salutata negli anni ’80 come una grande innovazione, si è rivelata un grosso collo di bottiglia. Le mani, le dita, hanno agilità sorprendenti, sono connesse al cervello con una banda passante imponente dal punto di vista neuronale. La nostra capacità di esprimere il pensiero attraverso i movimenti delle dita è stata plasmata da milioni di anni di evoluzione, da migliaia di anni di lavoro dei nostri antenati, il sottosistema cervello dita è in grado di imparare rapidamente nuovi gesti per tradurre concetti in lavoro. Non così si può dire per il polso. Coordinare il movimento del polso per usare il mouse richiede molta fatica all’inizio e ci si assesta ad un livello piuttosto povero anche dopo anni di utilizzo. La tastiera è tutta un’altra storia: non si finisce mai di migliorare, e la capacità espressiva è senza paragoni. Emacs ti permette di fare tutto senza staccare le dita dalla tastiera. Non è solo un fatto di velocità, anche, ma soprattutto di concentrazione: togliere le mani dalla tastiera per afferrare il mouse e muoverlo col feedback visivo crea una distrazione inutile. Pensate alla differenza ergonomica tra battere contro-s e afferrare il mouse, muoverlo verso la entry “File” sul menù, aspettare che si apra, individuale il “Save”, e finalmente cliccarlo.

Date due mani alla porta, ma non basta. Il boss dice che il colore è troppo chiaro.

Antonio ha messo un link al Sistema Periodico tra i commenti al post precedente. Ho iniziato a sentirlo dall’inizio: davvero molto bello. Elio de Capitani è molto bravo a leggerlo. Mi piace come legge, anzi, interpreta, il piemontese. Ho ascoltato i primi due capitoli. Mi ha colpito la storia dell’ebraico piemontesizzato, pensavo a quello che avevo scritto sui linguaggi, come nascono e si trasformano in base ai gruppi di persone, come servano ad unire e insieme dividere. Mi è piaciuto anche dove descrive il perchè, le radici, del suo amore per la chimica. Mutatis mutandis ci vedevo cose simili nel mio amore per l’informatica: tra l’altro una qualche promessa di redenzione universale. Chissà, forse tutte le innovazioni tecnologiche sono state viste da qualcuno in questo modo.

Ora si guarda Messiah su Neflix.

Retired


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Ieri Vito mi ha mandato questo messaggio. Questo post è la risposta.

Passo importante, la pensione: merita scrivere qualcosa: una specie di lapide su questo lunghissimo periodo della mia vita che si è chiuso. Altrettanto importante dell’apertura di quella parentesi: ricordo ancora, in mezzo ad altre sensazioni, come l’euforia di aver finalmente un lavoro, di aver in qualche modo trovato un mio posto nel mondo, e le ambizioni, e le aspettative, il senso di panico per il tempo che veniva incanalato in una dimensione nuova, preoccupante. Il non poter più disporre delle mie giornate come facevo prima: una ricchezza che davo per scontata e, improvvisamente, non c’era più. Non poter più vedere gli amici quando volevo, non poter più decidere giorno per giorno, ora per ora, cosa fare.

Lavoro, Realizzazione e Riposo

Il dono più affascinante della pensione è il senso di riposo, credo. La possibilità di alzarti più tardi, magari di tornare a dormire se sei stanco durante il giorno, o di fare un pisolino dopo pranzo. Ma anche, in generale, il poter adattare il tuo tempo al ritmo generale delle cose: uscire a passeggiare o in bici, magari solo a far la spesa, nelle ore di sole. Cucinare e mangiare quello che ti piace o ti fa bene, senza dipendere dalle scelte di una mensa aziendale. Essere a casa quando arriva un corriere con un pacchetto di Amazon 😁. Fare dei lavori in casa, o semplicemente esserci quando arriva un idraulico o un muratore. Godersi i propri spazi, la casa, di giorno, col sole, invece di vederla solo in qualche ritaglio al mattino o alla sera o nei frenetici fine settimana in cui cerchi di recuperare tutto quello che avresti voluto/dovuto fare nel resto del tempo. Divertimento e riposo compresi.

Detto questo, a parte gli aspetti su elencati, decisamente piacevoli, è un peccato che si passi la maggior parte del tempo lavorativo ad aspettare che finisca. Il lavoro, di per sé è la dimensione che maggiormente valorizza l’essere umano. E’ probabilmente la porta migliore che abbiamo per quel po’ di felicità che ci è concessa. Siamo veramente felici solo in quei magici momenti in cui siamo persi nel fare qualcosa che ci viene bene, qualcosa che sappiamo fare ed è utile al mondo intorno, qualcosa che, in qualche misterioso modo, aggancia la parte più profonda di noi, il nostro piccolo ingranaggio, alla complessa macchina del mondo. E forse la parte economica del lavoro, quella che, a volte, consideriamo più importante, quanto guadagniamo, è solo il meccanismo ormonale che ci guida verso la collocazione migliore.

Insomma il lavoro è una bella cosa, il fatto che la percepiamo spesso diversamente è solo il segno di qualcosa che non va. Nel modo in cui viene organizzato, nella società, nel modo in cui ci hanno educati a pensarlo.

Ho avuto la fortuna di lavorare sia in ditte piccolissime (il mio primo lavoro è stato in una ditta in cui ero l’unico dipendente: facevo il softwarista, l’hardwarista, il segretario, le consegne e il supporto clienti, l’ufficio acquisti, il commesso, e lavavo i vetri e i pavimenti) che in realtà molto grandi, con decine di migliaia di dipendenti, passando per piccole società in cui ancora conoscevi i padroni. Ho potuto farmi un’idea abbastanza precisa, dei vantaggi e svantaggi di un tipo di organizzazione rispetto all’altra. Il problema comune a tutte, direi, è la difficoltà ad innovare. Nelle aziende piccole perché innovare costa, e quindi si spreme il limone fin che ce n’è per continuare a esistere, nelle grandi, dove le risorse ci sarebbero, perché non si sa bene dove agire: chi comanda non lo sa, per cui delega. Delega a persone diverse la produzione e l’innovazione e il risultato è che chi deve innovare non sa dove agire, tenta di importare soluzioni di moda, che in genere non si adattano. Alla cultura, alle persone, e comunque non fanno presa perché gli altri, quelli che fanno, vengono misurati su obiettivi completamente diversi.

Questo problema dell’idra, il mostro a più teste, è presente in tutte le grosse aziende: aspetti diversi e conflittuali tra loro vengono allocati a responsabilità diverse. Il risultato è che chi si occupa di sicurezza, o di acquisti, ad esempio, farebbe scelte completamente diverse da chi progetta o produce, e non c’è, ne ci può essere, nessuno che armonizza questi cervelli.

In definitiva il problema è l’applicazione del feudalesimo a una realtà multidimensionale. Non funziona. Mi spiego meglio. Le grosse aziende, anche se paladine del libero mercato, che tutto sommato è una forma di democrazia, o, almeno, di governo cooperativo, mediato da uno strumento che chiamiamo denaro, di fatto sono organizzate con gerarchie feudali: c’è uno in testa che comanda, in genere su un insieme di cose troppo complesse perché uno solo le possa capire, e allora delega a un pugno di altri. Come li sceglie in genere è già un problema. Come è stato scelto lui è un problema anche maggiore: gli azionisti hanno a cuore che qualcuno faccia fruttare i loro soldi e quindi scelgono uno che sa di soldi. Ma in genere non sa di scarpe, o di pomodori o elettronica o qualsiasi altra cosa sia il core business dell’azienda. Il capo in testa delega in base a qualche tipo di organizzazione studiata a tavolino, e che nessuno ha mai dimostrato funzioni. Immagino che il metro sia che si fa in genere così. E di lì in cascata, ogni gradino trattiene i suoi soldi e i suoi onori e ri-delega in basso più o meno con gli stessi criteri, fino ad arrivare a qualcuno che si arrabatta per far funzionare qualcosa, generalmente lottando contro gli altri pezzi dell’azienda. È ovvio, infatti, che a quel punto ogni ramo persegue obiettivi separati, molto spesso in conflitto con quelli degli altri rami. Quando qualcosa funziona è perché, più o meno casualmente, ogni tanto, qualcuno con un minimo di competenza del ruolo che occupa, si impone e, sgomitando, barando, in genere aiutato da qualche capo che si rende conto della sua incompetenza e lo lascia agire, usa tutto il potere di cui riesce a impossessarsi per agire in modo sensato.

Le aziende generano e nutrono mostri …

Una struttura feudale del genere non funziona, ma non lo sa. Resta in vita perché l’investimento di capitali ha tempi di verifica lunghi e perché, in vario modo, drena risorse dalla società, innescando, ad esempio, vari tipi di contrafforti economici, in nome, in genere, della difesa dell’occupazione, o dell’italianità, o, spesso, meccanismi di lobbying, corruzione, miopia dei sindacati o dei governi.

In una struttura del genere prosperano mostri. Di diversi tipi:

  • Il Mastro Proia Iungi U Frusc’llar. Viene dal paese di mio padre, in Puglia: il maestro nell’arte di porgere i giunchi a quello che fa i cesti di vimini. L’esperto di un mestiere che esiste solo lì, che non avrebbe senso da nessun’altra parte. Il ganglio nervoso di un organismo insensato, che persegue obiettivi locali, senza mai chiedersi se e come quello che fa si relaziona con il motivo di esistenza dell’azienda nel suo insieme.
  • L’arrampicatore. Quello che magari ha capito che è tutto una finzione, ma se ne approfitta. Sgomita. Tesse relazioni. Lecca culi, ma solo finché serve, poi ne uccide il proprietario. Accumula potere, ma non per poi usarlo per dare finalmente un senso al lavoro suo e di altri, ma per occupare ruoli sempre più pagati. Quelli per cui l’azienda è un’arena in cui duellare. Quelli per cui i colleghi sono avversari da sconfiggere o pedine da utilizzare. Ecco, per loro il termine retired è adatto al momento del pensionamento: ritirarsi dalla tenzone.
  • Il parassita. Sono la maggior parte. Quelli che neanche si pongono il problema del fatto che il lavoro possa/debba avere un senso. Passivi. Quelli che fanno finta di lavorare, appena non sono troppo in vista si fanno i cazzi loro. Quelli per cui la massima ambizione lavorativa è essere messi da parte. Quelli per cui timbrare il cartellino è il lavoro.
  • Le puttane. La versione orgogliosa del parassita: stesso giudizio sull’utilità del lavoro, stesso atteggiamento verso il senso dell’azienda, ma non possono accettare/rischiare di essere messi da parte. E allora lavorano: fanno quello che gli si dice, che i capi gli dicono. Ma attaccano l’asino dove vuole il padrone, anche quando si rendono conto che è inutile o è un danno per l’azienda. Mi paghi? Faccio quello che vuoi, non una virgola di più. Non un briciolo di senso critico. Mai una spinta a migliorare, un suggerimento.

Quanti ne ho incontrati, di questi mostri. Con quanti mi sono scontrato. Spesso non si rendono neanche conto di esserlo.

… e ospitano meraviglie

E in mezzo a tutto questo disastro umano ed economico qui e là trovi delle persone. Delle persone belle. Gente che magari è stata mostro (anch’io penso di esserlo stato, mostro di tutti i tipi sopra) e ad un tratto si è risvegliata. Bruchi diventati farfalle. Restano lì, ovviamente, conservano, a volte, la parvenza di mostro, un po’ ingentilita magari, ma restano lì in mezzo. In una situazione economica diversa si muoverebbero, forse. E però cominciano a volare, a splendere. Sono quelli che danno valore ai rapporti con le persone, quelli che ti rendono meno penoso andare al lavoro ogni giorno. Quelli che, comunque, cercano di coltivare una professionalità. Quelli che continuano a sperare che qualcosa cambi, che ne colgono i segni, che, nel loro piccolo, fanno qualcosina perché succeda. Quelli che puoi arrivare a considerare amici.

Tanti, anche di questi ne ho trovati tanti. Un abbraccio.

Hobbies

Beh, ora sono qui, e proverò a inventarmi qualche modo per impiegare il poco tempo che mi rimane dalla lista di cose che mia moglie mi lascia da fare ogni mattina.

Un parziale elenco di idee potrebbe essere: andare in bici, fare passeggiate, andare in piscina, visitare musei, leggere, ascoltare musica, imparare qualche lingua, qualche nuovo linguaggio di programmazione, fare qualche corso su Coursera, imparare a suonare qualche strumento, partecipare a qualche progetto open-source, crearne qualcuno, provare a fare qualche lavoro freelance, scrivere su questo blog, andare a pescare, coltivare l’orto, allevare galline, o cavallette, giocare con l’arduino e il black berry, o la stampante 3d, fare fotografie, magari col drone.

Lo so: dovevo andare in pensione a 13 anni.

Fede

K. Gibran

La fede è il senso del cuore, come la vista è il senso dell’occhio.

Forse sono un po’ infastidito proprio dalla parola Fede. La frase citata sopra, di K. Gibran, me la fa un po’ rivalutare. Il senso del cuore. Proprio bello. Ma credo che non venga intesa così dalle persone che si professano religiose. Credo che per loro non sia un senso del cuore, ma un parto del cervello. La fede, come è comunemente intesa è una decisione razionale. Provo ad indagare tra i miei ricordi, visto che ci sono passato. Direi che era uno scommettere su una cosa o un’altra. Pascal. Sarà vero quello che mi stanno raccontando o no ? E su che elementi baso questa decisione ? Persone che stimo ci credono. Migliaia di anni di storia, milioni di persone nel corso dei secoli. Elaborazioni infinite. Autorità, gerarchie, regni. D’altra parte milioni non ci hanno creduto. Eroi e martiri su entrambe le barricate. Santi ed eretici.

Anche gli eretici hanno avuto fede, sono morti per quello in cui credevano. Qual’è la differenza ? Che quelli che oggi detengono la versione ufficiale, quelli che hanno ereditato il simbolo del partito, hanno vinto. E quindi ti raccontano la storia dal loro punto di vista. Raccontano che la Chiesa è stata fondata direttamente da Dio, dire che quello era un uomo la sminuirebbe, traballerebbe tutto il castello. Per carità, tutto il rispetto per chi si sente di aderire a questo tipo di spiegazione. A me non dice più niente. Anzi, penso che faccia del male. Perchè lo confronto con la fede-senso-del-cuore. Probabilmente non ce l’hanno tutti questo senso. Anzi, credo decisamente in pochi. Forse è genetico: o lo senti o no. C’è chi non distingue il rosso dal verde, e c’è chi non sente il bisogno di chiedersi che ci facciamo qui. O gli viene facile accettare una spiegazione di comodo, il caso forse. Ma la storia di un Dio che in milioni di anni di storia, milioni di pianeti forse abitabili, abbia scelto un posto specifico nel tempo e nello spazio, un popolo di pastori, e in quell’ambito un uomo particolare. Abbia scelto di veicolare la storia di quell’uomo infiltrando organizzazioni terrene, come l’impero romano, creando infine uno stato, con una banca, e abbia stabilito che il capo di quello stato fosse il tramite diretto verso di lui … per favore ! Sembra la trama di qualche pessimo film su qualche dittatura sudamericana. La fede-senso-del-cuore, non può accettare queste cose. Brucia. Vuole capire. Capire col cuore, non col cervello. La razionalità qui non può avere il primato. Il cuore lo sente il Dio che parla. Qualche cuore, almeno: genetico.

Homecoming

Tempo fa ho letto un meraviglioso romanzo di Orson Scott Card (in effetti una serie di cinque romanzi, una saga). Si chiama Homecoming. Purtroppo sembra sia stato tradotto in italiano solo il primo libro. Parla di un pianeta, Harmony, popolato da gente fuggita dalla Terra per evitare qualche catastrofe incombente. Gente con tecnologie molto avanzate. Arrivati sul pianeta decidono che il problema più grosso dell’umanità, quello che ha provocato la distruzione del pianeta nativo, è l’incapacità di coniugare il progresso tecnologico con l’armonia tra i popoli. L’istinto di prevalere, la guerra, unita a capacità di distruzione oltre misura condannano l’umanità all’estinzione. Per ovviare a questo rischio pianificano un esperimento sociale: manipolano geneticamente i loro discendenti in modo che le loro decisioni e l’acquisizione stessa di conoscenze sia sottomessa all’approvazione di un computer.

L’Oversoul, questo è il nome che viene dato dai loro discendenti al computer, controlla tutti i cervelli umani del pianeta. Raggiunge queste antenne biologiche nella corteccia cerebrale di ognuno attraverso una rete di satelliti che circonda il pianeta. Per gli umani, per la percezione che ne hanno, l’Oversoul è Dio, con tanto di ordini religiosi da cui viene venerato,e riti e credenze varie. La missione dell’Oversoul è di impedire all’uomo di sviluppare qualsiasi cosa possa servire a scatenare guerre su scala geograficamente ampia. L’uomo non può inventare/costruire armi, ma neanche mezzi di trasporto di massa, perchè permetterebbero a truppe di un paese di assalirne un altro. In compenso il mondo è avanzatissimo, esistono i computer e le università dialogano attraverso una rete. Questo stato di cose deve durare fino a che l’uomo non sviluppi la capacità di evitare la violenza, di scegliere il dialogo come mezzo di risoluzione dei conflitti. La narrazione della vicenda si svolge 40 milioni di anni dopo. L’uomo è ancora come prima, Scott Card è molto pessimista. L’Oversoul dovrebbe continuare il suo compito, ma non può più. I coloni originari non pensavano ci potesse volere tutto questo tempo. I satelliti cominciano a rompersi o a cadere, gli organismi umani evolvono geneticamente sviluppando individui sempre più sordi a questa ingerenza dell’Oversoul. Il computer elabora un piano per uscire dalla situazione. Nel corso di diverse generazioni manovra le persone in cui queste antenne biologiche sono più sensibili, in modo che si incontrino e generino figli sempre più capaci di comunicare con questa macchina-Dio. Tutto questo si scopre tardi nel romanzo. La storia viene raccontata con gli occhi dei protagonisti, che sono l’apice di questa selezione genetica. Nafai, il personaggio principale, può dialogare direttamente con l’Oversoul. Io trovo che questa fantareligione costruita da Scott Card sia un buon paradigma di quello che avviene in realtà. Non so se ci sia un Dio che direttamente seleziona la gente per amplificare queste antenne, non sono neanche sicuro che questa sensibilità per il trascendente costituisca un vantaggio evolutivo, ma mi piace pensarlo. Penso che qualcuno abbia queste antenne più sviluppate di altri, e chiami Fede una cosa diversa dalla scommessa di Pascal. Per queste persone il mondo spirituale è una cosa che si sperimenta, che ha a che fare con l’arte, con l’intuito. Insomma col cuore.

See

Un’altra bellissima parabola di questo concetto di fede come risultato della combinazione genetica, è una serie tv apparsa in questi giorni su Apple TV Plus, la piattaforma di streaming lanciata da Apple. La serie si chiama See.

La storia racconta di un virus che ha decimato l’umanità lasciando i pochi superstiti completamente ciechi. Tantissimi anni dopo esiste una civiltà di gente che ha completamente dimenticato il senso della vista. Qualche leggenda ne parla, ma nessuno riesce a immaginare cosa davvero potesse essere. Molti non ci credono. Chi ne parla viene bollato come eretico. Ci sono state evoluzioni genetiche che hanno portato alcuni individui ad amplificare la portata degli altri sensi. Persone con udito finissimo o un olfatto particolarmente sensibile vengono usate nelle guerre per sentire l’avvicinarsi di eserciti nemici. Qualcuno è in grado di percepire a distanza sentimenti come l’odio. Quasi tutti sono in grado di muoversi agevolmente anche in ambienti non conosciuti, sanno percepire un burrone sul loro tragitto. Quasi tutti riescono a capire se un interlocutore mente.

In questo mondo nasce per caso un uomo che ci vede. Dà vita a due bambini anche loro in grado di vedere. E devono nascondersi dal resto del mondo che ne ha paura, perchè non capisce cosa possa essere questo vedere.

Credere

Penso che, almeno in parte, queste due storie non colgano esattamente il punto. La fede, questo senso-del-tutto di cui qualcuno è più dotato di altri, non rappresenta un vantaggio evolutivo individuale, almeno non così diretto. I protagonisti vedenti di See possono usare armi come l’arco e le freccie che sono preclusi agli altri, i protagonisti di Homecoming ricevono direttamente dall’Oversoul indicazioni che li proteggono dai pericoli e li guidano nel raggiungimento della loro missione. É bello pensare che vantaggi simili siano in qualche modo offerti anche ai credenti, ma il punto principale non è questo. La fede non serve a diventare superman.

Mi piace pensare che il vantaggio evolutivo ci sia, ma sia di gruppo. Una società ricca di individui che regolano le loro scelte tenendo conto di una visione più ampia è destinata a prosperare rispetto ad una in cui prevale una visione egocentrica.

La Chiesa e la sua crisi

Ultimamente la crisi della Chiesa è visibile a tutti. In genere, soprattutto dai cattolici, viene attribuita a fatti recenti, come la pedofilia, qualcuno la vede come risultato del non aver saputo adattarsi ai tempi moderni (sacerdozio femminile negato, celibato non più attuale/sostenibile). Probabilmente questi aspetti hanno contribuito all’accelerazione del fenomeno dell’abbandono di tanti fedeli, ma secondo me la questione ha radici più profonde e antiche.

La chiesa ha sempre avuto tante correnti, e tanti sono stati nel corso della sua linga storia i tentativi di rinnovamento, di riscoperta del valore fondante, ma bisogna dire che la chiesa main-stream ha da sempre avuto un carattere ben lontano da qualsiasi cosa chiunque possa capire del messaggio a cui la chiesa stessa si ispira leggendo un qualsiasi vangelo.

Gesù di Nazareth predicava la precarietà, la povertà nel senso di abbandono delle preoccupazioni legate alla sopravvivenza (“Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, non mietono, non raccolgono in granai, e il Padre vostro celeste li nutre. Non valete voi molto più di loro?”, Matteo 6), di abbandono addirittura delle preoccupazioni legate alla diffusione del messaggio (pensate al discorso sui servi inutili in Luca 17, o al “non preoccupatevi di come o di che cosa direte, perché vi sarà dato in quell’ora ciò che dovrete dire: infatti non siete voi a parlare, ma è lo Spirito del Padre vostro che parla in voi” in Matteo 10).

A fronte di questa preoccupazione la Chiesa si è sempre data un gran daffare per accumulare denari (per la propria sopravvivenza), ad accumulare potere (per diffondere il messaggio), ad accumulare pensieri, dogmi (perchè il messaggio trasmesso fosse solo quello delle gerarchie, perchè lo Spirito neanche si sognasse di parlare per bocca di qualcun altro). Insomma, se c’è una cosa che la Chiesa non ha mai avuto è stata la Fede.

La dottrina cristiana, in particolare quella cattolica (la riforma protestante ha avuto il merito di provare a scrollarsi di dosso alcune di queste incrostazioni) è un castello di insensatezze, partorite da anime cupe, spaventate dalla natura umana, in particolare dalla sessualità, e in genere tese a giustificare sè stesse e la struttura terrena e di potere temporale della Chiesa.

Il concetto base di questo castello di idee è il concetto di salvezza. Secondo la dottrina ufficiale l’uomo nasce dannato, per una colpa commessa dai suoi progenitori, e la persona di Gesù è il Dio mandato tra gli uomini a compiere un estremo sacrificio per togliere questa colpa, per salvarci da questa macchia originale. Perchè un Dio (che si suppone sano di mente e soprattutto buono) avrebbe dovuto architettare una cosa così strampalata non è dato di saperlo. Come questi concetti trovino radice nei pochi scritti che ci sono arrivati della predicazione di Gesù non è chiaro, come non è chiaro dove avrebbe detto ai suoi discepoli di fondare una Chiesa con struttura feudale. Se da un lato la famosa frase “Tu sei Pietro e su questa pietra fonderò la mia Chiesa” è quanto meno una traduzione sbagliata (il termine greco tradotto come pietra è in effetti ciotolo, non roccia, il termine corretto avrebbe avuto tutt’altro senso) poco si concilia con tutto il resto della predicazione di Gesù (vedi ad esempio frasi come “Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo. E non fatevi chiamare “maestri”, perché uno solo è il vostro Maestro, il Cristo. Il più grande tra voi sia vostro servo; chi invece si innalzerà sarà abbassato e chi si abbasserà sarà innalzato.” Matteo 23).

Non possiamo sorprenderci oggi che questo edificio di assurdità (in mancanza di un messaggio sensato lo si è sostituito con formule vuote ammantate di dogmatismo e imposte alla religiosità popolare con l’infallibilità della gerarchia) collassi. La cosa triste è che essendo stata percepita come l’emblema, il fulcro della religiosità rischia di portarsi dietro, in questo crollo, tutto quanto di bello c’è nel messaggio dei vangeli e nella spiritualità in generale.