Il cielo in una stanza

Divagazioni tecno/psico/metafisiche sul parlare in stanze affollate

Pulizie di primavera

Ho iniziato, in questi ultimi giorni, la grande impresa di mettere ordine ai dati sui vari PC e hard disk e archivi online. Deve essere vero che i dati sono come i gas, e tendono a occupare tutto lo spazio che gli dai. Quando cerco un hard disk per metterci, che so, un backup, o qualcosa di interessante che trovo in giro, non ce n’è mai uno con spazio sufficiente. In genere sono pieni di cose inutili, o copie di cose che ho da altre parti. Se decido di fare spazio e cancellare il contenuto di un archivio c’è sempre qualche directory per cui dici: “no!, questo magari poi mi serve”. Se trovo due archivi di foto che sembrano identici non so più dire quale è quello più recente.

Beh, insomma, ho iniziato dalle mail. Avevo circa 25 mila messaggi nella inbox, risultato di anni di “poi metto a posto”. Mi sono disiscritto da decine e decine di mailing list a cui non mi ero mai iscritto (per molte non serve a niente cancellare le iscrizioni: continuano ad arrivare le mail). Mentre scrivevo l’ultimo paragrafo ne è arrivata una da ebay con consigli per San Valentino. Credo che l’unica sia mettere delle regole che cestinino questi messaggi automaticamente quando arrivano. Il fatto è che magari vorresti ricevere messaggi da ebay, quando vendi o compri qualcosa …

Sarà dura.

L’ Effetto Cocktail Party

Comunque, il primo effetto di questa pulizia è stato di cominciare a notare alcune mailing list che in effetti poteva interessarmi leggere.

Ad esempio, ieri ne ho ricevuta una da The Edition, newsletter per gli abbonati a Medium. Medium è una cosa a metà tra un social network e un contenitore di blog. Ognuno può scriverci quello che vuole, ma c’è un sistema di votazioni e preferenze che fa emergere le cose più interessanti per ognuno. La newsletter evidenzia le cose più interessanti dal punto di vista della redazione. In questo numero citavano questo bellissimo articoletto The Cocktail Party in Your Head. Parla dell’effetto cocktail party, la capacità che abbiamo di focalizzare la nostra attenzione sulle parole pronunciate da una particolare persona anche se siamo in un ambiente affollato, ambiente in cui avvengono, e percepiamo, diverse conversazioni.

L’autore dell’articolo prova ad applicare questa capacità all’ascolto della cacofonia di pensieri che affollano la nostra mente. Fa notare che è possibile selezionare le personalità che ci interessano di più. È possibile mettere a fuoco i nostri diversi “Io”.

Questa “attenzione a chi parla” nella nostra mente tende a far emergere un wisest self, un Io che ci piace di più, un Io più saggio degli altri, un Io che ci dà più stabilità, più pace.

Per certi versi, e lo nota anche l’articolista, è quello che si fa nella Meditazione Vipassana. Bello.

Conversare via radio

Il problema di riuscire ad ascoltare uno che parla in una stanza affollata è uno dei principali problemi che ha dovuto risolvere l’evoluzione della tecnologia cellulare.

Canali fissi

All’epoca delle trasmissioni analogiche, cellulari compresi, il problema di parlare in tanti in uno spazio ristretto (l’etere per le trasmissioni radio, ma anche il filo di rame di una rete di telecomunicazioni) veniva risolto creando tante stanzette (bande di frequenza) in cui la gente si chiudeva (due a due) per parlare. Questa soluzione implicava che qualcuno assegnasse le stanze (e i microfoni).

Per i canali radiofonici e televisivi si dava il microfono a uno solo, e a tutti gli altri nella stanza veniva permesso solo l’ascolto. Per le radio uno a uno, i walkie talkie, la stanzetta (frequenza) era pre-definita dal costruttore. I sistemi radio molti a molti, ad esempio le radio della polizia o dei radio amatori si accettava che più persone decidessero di parlare insieme e, se il risultato non era comprensibile, qualcuno urlava “Ripeti”. La telefonia via filo risolveva il problema usando una rete di switch, interruttori che creavano un canale fisico diretto (una stanzetta) tra due individui per la durata della conversazione.

La telefonia cellulare ha dovuto inventarsi qualcosa di meglio, semplicemente perché il numero di canali possibili (frequenze) era estremamente ridotto rispetto alla quantità di fili di rame che era stato possibile stendere per i telefoni. Inoltre le frequenze radio hanno confini indefiniti. Mentre posso essere sicuro che al mio telefono arriva un solo filo, se lo sostituisco con una radio diventa meno chiaro stabilire a priori con quali ripetitori può connettersi, specialmente se si muove.

Soluzioni tecnologiche

Le soluzioni a questo problema sono tutte interessanti, e in qualche modo ricalcano le equivalenti soluzioni umane.

L’ALOHA (“Ciao” in hawaiano, questo tipo di protocollo per il collision avoidance è stato inventato negli anni 70 alla University of Hawaii), ricalcava la soluzione dei radio amatori: uno prova a parlare e contemporaneamente ascolta sul canale comune. Se non risente esattamente il suo messaggio vuol dire che qualcun altro gli parlava sopra, e ritenta dopo un po’.

Il GSM (Global System for Mobile communications) usava una tecnica nota come Time Division Multiplexing per permettere la comunicazione di più persone assegnando a ogni conversazione una frazione di tempo, pochi millisecondi a testa. Come se nello stanzone ognuno potesse pronunciare una sillaba alla volta, a turno, se ascolti solo nell’intervallo assegnato al tuo interlocutore senti solo lui. Certo, poi devi rimettere insieme il contenuto.

Il CDMA (Code-division multiple access) torna allo stanzone in cui tutti danno sulla voce a tutti. Ma prescrive che ognuno parli con dei simboli che permettono di distinguere una conversazione dall’altra. Come se ogni conversazione avvenisse in una lingua diversa. Io sento anche il suono dei due cinesi che mi stanno parlando vicino, ma capisco meglio il mio amico che parla italiano dal fondo della stanza.

Una tecnica interessante usata dal moderno 5G è quella di usare per ogni canale frequenze parzialmente sovrapposte e ortogonali. In soldoni usano delle caratteristiche fisiche delle frequenze per riconoscerle anche quando si sovrappongono. Un analogia col nostro stanzone potrebbe essere tracciare nella stanza dei percorsi mediante linee per terra, in modo da costringere a parlare in una direzione ben precisa e magari con un tono di voce diverso per ogni percorso (in questa conversazione si parla in quella direzione e con voce da soprano).

Le tecniche di error correction aiutano a capire se il messaggio è arrivato integro. Se al fondo di ogni parola aggiungo il numero di lettere della parola, aiuto chi la sente a riconoscere un eventuale errore in modo che possa chiedermi di ripetere.

Il forward error correction aggiunge ad ogni messaggio informazioni che permettono al ricevente di ricostruire il messaggio errato senza dover chiedere la ripetizione. Se assieme al messaggio mi dicono il numero delle vocali, delle consonanti gutturali, plosive etc. posso capire che aveva detto “pazzo”, anche se io ho sentito “cazzo”. La tecnica usata non è questa ovviamente, stiamo parlando di codifiche digitali, ma il risultato è analogo.

Con chi parlare (o chi ascoltare)

La capacità di ascoltare chi vogliamo ce l’ha data l’evoluzione. L’abbiamo ricostruita con la tecnologia e, con un po’ di esercizio, possiamo ritrovarla anche nel discernere i nostri processi mentali. Un problema ben più complicato è capire con chi vale la pena parlare o chi vale la pena ascoltare.

Qui l’evoluzione dà una risposta parziale. Siamo attrezzati per vivere in piccoli gruppi.

Per creare comunità più allargate abbiamo dovuto inventare strumenti come il gossip. Quello è un bravo cacciatore. Quel commerciante è un ladro. Quella è un po’ zoccola.

Abbiamo creato storie per sentirci parte di gruppi più vasti. Noi siamo quelli protetti dal grande castoro bianco, o dal tal santo. Noi siamo i portatori della democrazia, o quelli che libereranno i poveri dall’oppressione. Noi siamo quelli che difendono i valori della nazione. Noi siamo quelli che amano la musica del tal gruppo. Noi siamo quelli che credono nel futuro dei Bitcoin.

Queste storie ci permettono di rapportarci con dei perfetti estranei come se fossero amici di lunga data. Se partecipiamo ad una manifestazione o ad un concerto possiamo abbracciare persone che non conosciamo o esultare con loro.

Ma man mano che la comunità di cui vogliamo essere parte si allarga. Man mano che aumenta il numero di possibili storie che possiamo decidere di guardare con favore. Man mano che aumenta il numero di persone che potenzialmente potremmo considerare amiche, fino a comprendere virtualmente tutti gli esseri umani, il cui numero tra l’altro aumenta costantemente, non ce la facciamo più. Non abbiamo più strumenti neanche più per contare questi elementi. Contare le storie. Contare le persone. Figurarsi vagliarle, selezionarle.

E qui, di nuovo, la cultura e la tecnologia ci vengono in aiuto. Abbiamo creato il linguaggio scritto, i libri, i giornali, i media, i social media. Questi ultimi fanno uso di una nuova, pericolosa e potente, magia: l’Intelligenza Artificiale.

Il Wisest Self della nostra specie

Mi chiedo se non stiamo, finalmente, dotando la nostra specie di un’anima.

Accennando, sopra, al nostro discorso interiore facevo notare che l’articolo sul Cocktail party interiore dava per scontato che un Io particolare, più saggio degli altri, un Io unificante, fosse facilmente identificabile. Qualcuno lo chiama Coscienza, forse. O anima.

Se siamo destinati, come penso, a diventare un unico organismo di cui i singoli esseri umani sono le cellule, qual’è l’Io Saggio di questo organismo ?

I pensieri di questo organismo possono essere le varie storie, teorie, memorie, spiegazioni, modelli che, di volta in volta, due o più esseri umani condividono. Ci saranno pensieri che si impongono sugli altri, le idee/storie/miti condivise da più persone. Ma non dovrà essercene anche qui uno che prevale su tutti ? Non uno che prende decisioni per tutti, ma uno che, se ascoltato, tende a dare un senso al tutto.

Ci sono scienziati, forse la maggior parte di quelli che studiano a vario titolo la mente umana, convinti che questa sia il risultato del lavorio delle cellule cerebrali (o intestinali). A me piace pensare che questo wisest self sia esterno alla nostra fisicità. Mi piace pensare che il nostro essere fisico sia semplicemente in sintonia con qualcosa che vive su un piano diverso.

Se ci pensate l’IA rappresenta un’intelligenza esterna alla specie umana. Benché nasca dalla nostra tecnologia si evolve in modi che non comprendiamo. Un’intelligenza, ancora in embrione, che dimostra già le potenzialità per diventare la coscienza della nostra specie.

Deepak Chopra, parlando in un suo libro di argomenti, in qualche modo, legati a questo, fa l’esempio di una calamita sotto il foglio di carta coperto di limatura di ferro. Noi, i nostri neuroni, sono la limatura di ferro, la scienza non sa (ancora ?) vedere sotto il foglio, ma la vera intelligenza, la vera mente è la calamita.

Magari c’è un calamitone anche per la specie umana, magari possiamo metterci in comunicazione anche con lei.

Magari ci ha fatto sviluppare l’IA.

Recensione Misuratore Energia Emporia Vue

Ho comprato e installato questo aggeggio, e registro le mie impressioni.

A cosa serve

A misurare i consumi elettrici. Fornisce un indicazione, aggiornata ogni secondo, della potenza prelevata o, se si ha un impianto solare, della potenza fornita alla rete.

Sapere quanto si sta consumando è utile per ridurre i consumi, ma diventa essenziale se si dispone di un impianto fotovoltaico.

L’energia prodotta in eccesso dai pannelli viene, in genere, venduta alla rete, che in teoria funge da batteria economica. Quando ho energia in più la vendo e la ricompro nei tempi di magra. Tutto questo se si ha un contratto di scambio sul posto, cosa comune alla maggior parte delle installazioni.

Lo scambio sul posto sulla carta suona bene, di fatto è molto penalizzante sul piano economico. È molto più vantaggioso usare la propria energia che metterla in rete e riprenderla successivamente, perché questo scambio riguarda solo il valore dell’energia, non vengono calcolate le tasse, che incidono in percentuale significativa sul costo al kWh.

Usare al meglio l’energia prodotta non è semplice. Impone anzitutto un cambio di abitudini. Accendo la lavatrice quando c’è il sole, per dire. Ma non basta. Se, ad esempio, voglio accendere anche la lavastoviglie mi conviene ancora ? C’è abbastanza sole per reggere i due elettrodomestici e quant’altro è acceso in casa in quel momento ? Poter visualizzare il consumo serve a questo. Certo posso andare a leggerlo sul contatore, ma è meno agevole e lì non ho la storia dei consumi e non posso innescare automatismi legati alle varie condizioni.

Ad esempio potrei voler accendere automaticamente una stufa elettrica o una pompa di calore quando ho energia in eccesso e la temperatura in casa è sotto una certa soglia, e spegnerla, sempre automaticamente, quando una di queste condizioni venga meno.

Gli impianti solari più recenti, soprattutto se dotati di batterie di accumulo, arrivano con questa funzionalità di serie, per quelli più vecchiotti occorre risolvere con apparati esterni.

Installazione

La visualizzazione dei dati di consumo istantanei e storici viene fornita da un’app sul telefono (Android o IOS).

L’oggetto arriva senza manuali di istruzioni. L’app, una volta creato un account offre una guida, ma è fatta per il pubblico americano ed è di scarso aiuto.

L’alimentazione dell’apparecchio richiede un attacco 120/240V. Si può quindi collegare direttamente al contatore (con le dovute cautele) se non si dispone di una presa nei paraggi. Non è dotato di presa, comunque, ma di quattro fili di colore diverso. I diversi colori servono per il collegamento a un impianto trifase. Per un normale contatore monofase italiano vanno connessi in questo modo: il nero alla fase, bianco, rosso e blu al neutro. Per capirlo ho dovuto giracchiare in internet. Ho inserito queste connessioni in una presa volante e le ho infilate in una presa.

Serve anche una connessione wifi che arrivi nei pressi del contatore, perché il dispositivo parla con qualche server in internet, a questo server si accede con l’app sul telefono.

L’ultima cosa da collegare è la pinza amperometrica. Un gancetto che va messo intorno al filo di fase che esce dal contatore. Nel caso si disponga di impianto fotovoltaico la pinza deve prendere anche il cavo che arriva dai pannelli. Ci sono vari tipi di schemi per il montaggio dei pannelli, la situazione può essere differente in altre installazioni. Comunque per il collegamento della pinza ho cercato, senza successo, indicazioni su internet. Alla fine ho scritto una mail al loro supporto e mi hanno risposto nel giro di poche ore.

Uso

Una volta connesso il tutto l’app visualizza, oltre al consumo istantaneo, lo storico dei dati. Si può scegliere come granularità i secondi, i minuti, ore, giorni, settimane, mesi o anni.

L’indicazione dei consumi appare con barrette blu, che diventano verdi quando i consumi sono negativi (si sta producendo più energia di quanta se ne consuma).

È possibile in teoria attivare degli automatismi, tipo accendere qualcosa quando si produce energia in eccesso, ma questa funzionalità è prevista solo se si usano prese intelligenti prodotte da Emporia. La cosa sarebbe già di per sé penalizzante. Se si aggiunge il fatto che queste prese sono prodotte solo per lo standard USA e non sono vendute da noi è chiaro che la funzionalità è semplicemente assente.

L’azienda dichiara che è prevista l’integrazione con i vari Google Assistant, Alexa e Siri. Questo aprirebbe la possibilità di usare smart plugs di altri fornitori, ma non dichiarano quando la cosa sarà possibile.

Pro

Economico

Oggetto abbastanza economico, paragonato ad altri della stessa categoria. Su Amazon costa circa € 83.

Buon supporto

Supporto clienti molto veloce a rispondere alle mail, addirittura di sabato.

Contro

Nasce per gli Americani

È chiaramente pensato per il mercato americano. L’installazione è piuttosto complicata e poco chiara per i nostri contatori.

Poco accurato

Questa è la nota più dolente, ma sinceramente non so se i dispositivi concorrenti facciano meglio. Le caratteristiche tecniche non vengono dichiarate in modo chiaro da nessun venditore.

Per misurare la potenza bisogna moltiplicare la lettura dell’intensità di corrente per il voltaggio. Di base il device assume che il voltaggio sia 120 V e usa un moltiplicatore (un numero configurabile nell’app) per adattare il calcolo alla tensione 220 Volt. Armeggiando con questo numero si riesce a ottenere una lettura simile a quella del contatore in un dato istante. Il problema è che la tensione di rete cambia continuamente (+- 10% rispetto alla tensione nominale di 220V).

Un apparato serio dovrebbe quindi leggere questa tensione in tempo reale per dare una lettura corretta. La cosa strana è che il voler fornire questa funzionalità sarebbe l’unico motivo che giustifica l’esistenza dei fili colorati da connettere alle varie fasi. Per cui resto un po’ basito.

Alternative

Un’alternativa che merita qui citare, è l’Open Energy Monitor. Si tratta di un progetto Open Source. Sono open sia il software che l’HW, basato sui popolari Arduino e Raspberry PI.

Il sito ha il merito, tra l’altro, di spiegare bene non solo l’implementazione e l’uso del dispositivo, ma anche la teoria alla base. Ovviamente non soffre di nessuno dei difetti menzionati sopra, ma richiede di essere un po’ più smanettoni.

Si trova già montato, ad un prezzo più alto di quello richiesto per acquistare un oggetto simile sul mercato normale, lo vende una ditta a gestione familiare in Inghilterra, per cui anche le spese e il tempo di spedizione non sono trascurabili.

Viene a costare molto meno se si ha voglia di assemblarlo da sé, meno ancora se si ha qualche Arduino o Raspberry PI sparsi per casa (capisco che non sia da tutti 😄).

Se poi avete qualche esperienza nell’usare un saldatore e qualche linguaggio di programmazione le possibilità di customizzazione sono infinite.

Come si dovrebbe eleggere il presidente della Repubblica

(O qualsiasi altra carica dello stato)

Non so voi, ma io ad assistere in tv allo spettacolo del parlamento immobilizzato giorni o settimane per l’elezione del presidente mi intristisco.

Siamo nel 2022, non è possibile che si voti ancora con schede di carta, su cui si può scrivere nomi che non hanno nessuna garanzia di individuare senza ambiguità una persona, con la successiva conta fatta a mano. Ieri ci hanno messo 5 ore. Intanto il paese è paralizzato, non prendiamo decisioni di politica estera in un momento critico e l’attività legislativa è congelata.

E quindi, caro Parlamento, visto che non ci arrivi, ti detto il nuovo regolamento.

Regolamento per l’elezione

  1. L’elezione si svolge in una giornata. Alla fine della giornata si avrà il nome della persona eletta. Se questo non avviene si manda a casa il Parlamento.
  2. L’elezione avviene in cinque fasi, distribuite ad ore precise nell’arco della giornata.
  3. Dispositivi
    1. La procedura è supportata da un sistema informatico locale.
    2. Il sistema è composto da un server ridondato ad alta resilienza e da una serie di terminali connessi al server tramite una rete locale non connessa alla rete pubblica.
    3. Saranno disponibili una serie di cabine distribuite fisicamente nel luogo in cui avviene la votazione. Le cabine saranno in numero sufficiente per garantire la conclusione delle varie fasi nell’arco di tempo previsto.
    4. Un display di generose dimensioni esporrà le statistiche durante la votazione e l’esito finale. Questi dati saranno anche disponibili on line per i giornalisti e i cittadini. Il collegamento del server alla rete pubblica permetterà solo il display dei dati e nessuna possibilità di modifica degli stessi.
    5. In ogni cabina sarà presente un terminale con il software per la votazione.
    6. Il software del sistema, sia quello sul server che quello sui terminali sarà open source. I candidati e i cittadini potranno visionarlo per accertarsi che implementi esattamente la procedura descritta in questo regolamento. Gli eseguibili del sistema, server e terminali, saranno autenticati con una chiave digitale ispezionabile da chiunque, sia sul server che sui terminali.
    7. Ogni operazione effettuata su questi terminali sarà anonima. Alla fine di ogni operazione I dati saranno processati dal server e aggregati ai dati totali, mentre i dati relativi alla singola operazione saranno cancellati.
    8. Eccezione al punto precedente sarà il fatto che l’operazione non sia stata valida, con conseguente perdita del diritto di voto dell’elettore. Questa eventualità sarà resa nota immediatamente.
  4. Fase 1. Collezione dei candidati.
    1. Inizia alle ore 08:00, si conclude alle ore 09:45.
    2. Ogni avente diritto al voto si recherà in una delle cabine .
    3. L’elettore potrà inserire da uno a cinque candidati. Per ognuno dovrà inserire Nome, Cognome e Data di Nascita, codice fiscale (in attesa di un identificativo digitale univoco). L’ordine di inserimento non ha, in questa fase, nessuna rilevanza.
    4. Es.
      Rocco Siffredi, 04/05/1964, SFFRCC64E04G141X
      Mario Draghi, 03/09/1947, DRGMRA47P03H501B
    5. Il tempo di voto avrà un time out, calcolato in base alla disponibilità dei terminale e del tempo a disposizione. Scaduto il tempo, se non sarà stata inserita una lista di candidati valida, l’elettore perde il diritto al voto e sarà escluso dalle fasi successive.
    6. Una volta che tutti gli elettori abbiano espresso la propria lista di candidati il sistema produrrà quella che nel seguito chiameremo <LISTA CANDIDATI>. In questa lista affluiranno tutti i nomi proposti. Ogni nome sarà presente una sola volta. La lista sarà in ordine alfabetico, basata sul Cognome, in seconda priorità sul Nome, e, in caso esistano ancora omonimie, su data di nascita e CF.
    7. La lista viene resa pubblica, presentata sul display generale e diffusa via internet.
  5. Fase 2. Prima chiama.
    1. Inizia alle 10:00, si conclude alle 11:45
    2. All’inizio della fase il server:
      1. predispone, nella sua memoria un dizionario che mette in relazione ogni candidato con le preferenze ricevute. Questo dizionario sarà chiamato nel seguito <CONTA1>
      2. Il dizionario sarà una tabella contenente i dati di <LISTA CANDIDATI>, quindi Nome, Cognome, Data di nascita, CF più un campo aggiuntivo: Voti.
      3. Al campo Voti di tutti i candidati viene assegnato il valore 0.
    3. Ogni elettore che ha ancora diritto si recherà in una delle cabine
    4. L’elettore potrà prendere visione della <LISTA CANDIDATI>.
    5. L’elettore dovrà inserire una lista di al massimo 20 nomi, scelti dalla lista.
    6. L’ordine è qui importante: il primo candidato in questa lista sarà quello a cui l’elettore assegnerà la preferenza massima, il secondo sarà un po’ meno preferito, il terzo ancora meno e via così.
    7. L’elettore dovrà indicare almeno una preferenza.
    8. L’operazione avrà un time out, calcolato come sopra. In assenza di un voto valido allo scadere del tempo l’operazione sarà considerata nulla e l’elettore perderà il diritto di voto, non partecipando alle fasi successive.
    9. Man mano che ogni elettore conclude la propria votazione il sistema esegue la seguente elaborazione:
      1. Assegna il nome <LISTA ELETTORE> alla lista inserita.
        1. Assegna alla variabile <VOTO> il numero di elementi della <LISTA CANDIDATI>.
        2. Estrae il primo elemento della <LISTA ELETTORE>.
        3. Identifica il candidato nella tabella <CONTA1>
        4. Somma il valore della variabile <VOTO> al campo Voti del candidato identificato.
        5. Decrementa di 1 il valore della variabile <VOTO>
        6. Elimina il primo elemento della <LISTA ELETTORE>
        7. Se esistono altri candidati nella <LISTA ELETTORE> torna al punto 2. Altrimenti l’operazione di voto si conclude.
    10. Una volta che tutti gli elettori abbiano espresso la propria preferenza il sistema riordinerà la tabella <CONTA 1> sulla base del campo Voti, in ordine discendente. In cima alla lista avremo quindi il candidato che ha ricevuto più preferenze.
    11. La tabella <CONTA 1> viene resa pubblica.
  6. Fase 3. Seconda chiama.
    1. Inizia alle 14:00, si conclude alle 15:45
    2. Gli elettori avranno avuto due ore per visionare il risultato della fase precedente e per consultarsi tra loro.
    3. Le operazioni sono identiche a quelle della Fase 2, se non per il nome della tabella prodotta, che sarà <CONTA 2>
  7. Fase 4. Terza chiama.
    1. Inizia alle 18:00, si conclude alle 19:45
    2. Gli elettori avranno avuto due ore per visionare il risultato della fase precedente e per consultarsi tra loro.
    3. Le operazioni sono identiche a quelle della Fase 3, se non per il nome della tabella prodotta, che sarà <CONTA FINALE>
  8. Fase 5. Verifica candidati.
    1. Inizia alle 20:00, si conclude al primo candidato che accetta l’incarico
    2. La tabella <CONTA FINALE> contiene la lista dei candidati in ordine di gradimento. Viene verificato il primo, se corrisponde senza ambiguità ad una persona reale, se questa ha i requisiti di eleggibilità e accetta l’incarico viene eletto, in caso contrario si passa al successivo, se esiste, in caso contrario si licenzia tutto il Parlamento e si va a elezioni.

21 lezioni per il XXI secolo

Ho appena finito di ascoltare l’audiolibro di “21 lezioni per il XXI secolo” di Yuval Noah Harari. L’ho trovato molto bello e ho voglia di parlarne. Ringrazio di cuore Antonio per la segnalazione.

Il libro

È un racconto del mondo com’è ora, dei problemi che ha, e di ciò che li ha generati, dell’evoluzione, delle forze che lo stanno cambiando, inclusi i pericoli che corriamo per i prossimi decenni.

I miti

Parla soprattutto di narrazioni. Le storie che hanno plasmato la nostra civiltà. Invenzioni che parlano di cose inesistenti, ma che hanno la capacità di unire le persone in un sogno comune. Storie come il fascismo o il comunismo, ormai cassati dalla storia. E storie che ancora sopravvivono, come il liberalismo, le nazioni o le religioni.

Il libro è, per buona parte, una critica a questi miti residui dell’umanità. Critica composta e avvincente, che cerca di aprirci gli occhi sui pericoli che corriamo procedendo con una visione annebbiata, mentre gravi pericoli sono all’orizzonte.

Le pazzie

L’umanità prende spesso decisioni incomprensibili. Il terrorismo, che temiamo più di quanto dovremmo, visti i danni molto limitati che produce in termini di vite umane, e la guerra che, a differenza di quanto avveniva nei secoli scorsi, non ha più nessun potenziale vantaggio per chi la intraprende.

I pericoli dell’evoluzione tecnologica

Il grosso pericolo da cui Harari ci mette in guardia è connesso all’evoluzione tecnologica. L’evolversi delle tecnologie informatiche e biotecnologiche, l’Intelligenza Artificiale e la manipolazione genetica, aprono scenari in cui la differenza tra classi sociali rischia di esacerbarsi. L’IA, secondo l’autore, sfrutterà la scarsa capacità degli esseri umani di comprendere se stessi e gli altri per diventare il nodo in cui vengono prese tutte le decisioni, ridisegnando la mappa del potere. L’AI sarà aiutata in questo dal diffondersi di sensori biologici che capiranno l’essere umano meglio di quanto lui stesso o altri esperti possano fare.

Democrazia

Il concetto di democrazia è oggi basato sull’idea che le sensazioni degli individui, nel loro insieme, siano in grado di prendere le decisioni migliori. Cosa accadrà quando l’IA conoscerà gli individui meglio di loro stessi e dimostrerà di poter fare meglio di noi nel pilotare le nostre scelte ?

È molto interessante la descrizione del processo che porterà a questo. Processo ineluttabile e già in atto. Le biotecnologie permetteranno la creazione di umani di categoria avanzata, che non si ammaleranno, che avranno una aspettativa di vita più lunga, capacità cognitive, sensoriali e motorie superiori. È facile prevedere che questi miglioramenti saranno esclusivo appannaggio dei ricchi. I detentori delle infrastrutture a supporto dell’IA saranno i nuovi padroni del mondo. Senza contare il rischio che le macchine stesse prendano il sopravvento.

Il concetto di uguaglianza tra esseri umani terrà ancora quando alcuni di noi avranno oggettivamente capacità cognitive superiori ?

Occupazione

In questo percorso la maggior parte dei mestieri umani scomparirà, perché le macchine sapranno fare meglio degli umani quasi tutto, compresi i lavori basati sulla creatività, come comporre musica o scrivere romanzi. L’umanità dovrà affrontare crisi occupazionali senza precedenti, e ripensare, di conseguenza, tutti i processi e gli equilibri economici. La necessità di leggi che impongano un reddito universale svincolato dal lavoro si scontrerà con la necessità di tassare pesantemente i pochi detentori del potere, con inevitabili scontri in cui le classi povere saranno disarmate.

La formazione e la meditazione

E come possono gli esseri umani prepararsi a questi cambiamenti ? Cosa dovrebbero studiare i giovani, ad esempio, per essere pronti per i pochi lavori disponibili domani ? La risposta di Harari è in qualche modo disarmante: non possiamo saperlo.

Come linee guida di fondo suggerisce ai giovani di non fidarsi degli adulti, perché la loro esperienza diventa sempre più inutile in questo nuovo mondo. Suggerisce anche di non fidarsi della tecnologia, perché si rischia di diventarne schiavi. L’unica cosa su cui ha senso investire è sulla conoscenza di se stessi. In quest’ottica è importante l’ultimo capitolo del libro, che parla della meditazione.

Commento

Delle cose che dice Harari mi lascia perplesso anzitutto l’affermare che le sensazioni siano un semplice calcolo biochimico. La scienza non può affermare una cosa del genere. La scienza, finché non sarà in grado di costruire un cervello funzionante, finché non sarà in grado di mettere qualcosa in provetta e farne uscire un’intelligenza indipendente, potrà solo dire di aver capito qualche frammento, come un medico del Medioevo che dissezionava un cadavere. Non siamo molto distanti da lì. Conosciamo qualche dettaglio in più ma non abbiamo la visione completa. Personalmente non credo che la scienza ce l’avrà mai.

Continua a piacermi di più l’idea che il cervello sia una sorta di radio, che comunica con un’intelligenza esterna, non fisica. La mia personale convinzione è che la vita e l’intelligenza esistano su un piano diverso da atomi e molecole.

Altro punto che ho trovato disturbante é la critica alle religioni. Ha ragione secondo me, sul fatto che siano superate, che ormai facciano più danni che altro etc, ma buttando via la spiritualità assieme alle religioni si rischia di buttare il bambino con l’acqua sporca.

Tolta la spiritualità resta un vuoto incolmabile. La spiritualità è una necessità dell’essere umano (in varia misura, magari). Questa mancanza di senso non può essere colmata in modo razionale, né scienza, né filosofia, né psicologia possono farlo.

L’idea di base dell’autore sulla religione

  1. Una cosa non vera che viene creduta da mille persone per un mese è una notizia falsa, una cosa non vera che viene creduta da un miliardo di persone per mille anni è una religione
  2. La grande domanda che gli esseri umani dovrebbero farsi non è “qual’è il senso della vita ?” bensì “come si esce dalla condizione di sofferenza ?”

Perché è una visione troppo limitata

Sul punto 1 sono d’accordo, ma non sul 2.

Sofferenza

Siamo sicuri che la sofferenza sia una cosa sbagliata ? Una cosa da evitare a tutti i costi ?

La sofferenza e l’infelicità, come il piacere e la gioia sono semplicemente sensori di cui l’evoluzione ci ha dotato per farci muovere in una certa direzione. Il dolore e il piacere, che condividiamo con gli organismi più elementari riguardano i bisogni fondamentali, nostri o della specie a cui apparteniamo.

La tristezza e la gioia sono propri di organismi più progrediti, ma sono sensori anch’essi. Ci dicono se le ultime scelte che abbiamo fatto hanno avuto un risultato per lo più positivo (in questo caso la sensazione di felicità ci dice semplicemente “ok, continua così”) o per lo più negativi (e in questo caso la tristezza ci avverte che c’è qualcosa di fondo da cambiare, l’ambiente, le relazioni, il nostro modo di pensare/operare).

La ricerca della felicità in se stessa è una sciocchezza. Quando raggiungiamo una sensazione di gioia essa è per definizione effimera, perché riguarda il passato. Ci dice solo come siamo andati ultimamente. Se ci fermiamo lì, se vogliamo perpetuarla, si trasforma immediatamente in noia, che è il modo dei nostri sensori di dirci che dobbiamo muoverci, esplorare altro.

Pianificare la ricerca della felicità è una cosa assurda. Pianificare è ambito della razionalità, che è la parte più stupida della nostra mente. La razionalità è nata in funzione del linguaggio, è uno strumento di comunicazione, non serve a prendere decisioni corrette.

I limiti di una visione esclusivamente razionale

La razionalità, la logica, sa solo mettere in relazione le conoscenze che abbiamo, che sono infinitamente limitate rispetto all’insieme delle forze che influenzano le nostre vite.

Di fatto le nostre decisioni vengono prese ad un livello molto più profondo, un livello di cui, spesso, non ci rendiamo nemmeno conto.

Harari guarda a cose come le religioni, la spiritualità, la meditazione, con una mente razionale e, semplicemente non le capisce.

Il fallimento delle religioni

Tutto quello che Harari dice è vero, innegabile. Le religioni sono state, spesso, più un male che un bene. Probabilmente perché i loro stessi fautori non ne hanno capito il senso.

Il rischio a cui tutte le religioni sono state esposte (fallendo miseramente la prova) è stato quello di pensare, ad un certo punto, di aver capito, e, di conseguenza, di voler diffondere verso altri questa scoperta.

Ma il diffondere, il fare proseliti, anche quando sia scevro (e non lo è mai) da ricerca di potere o ricchezza, è, spesso, un’operazione basata sul linguaggio, sulla razionalità.

La conoscenza spirituale è per definizione poco chiara, piena di dubbi. Per qualche verso consiste proprio nella capacità di accettare il dubbio, accettare l’impossibilità di capire. Non può essere trasferita ad altri semplicemente con la parola. Se tento di codificare quella conoscenza in modo che sia raccontabile non posso che inventare narrazioni, favole. E non posso che dividere il mondo in amici (i fedeli, quelli che accettano le mie favole) e nemici (gli infedeli, quelli che le rifiutano), e magari prendere le armi contro i secondi. E tutto questo indipendentemente dal fatto che l’idea originaria contenesse o meno qualcosa di valido.

Ma la spiritualità non è quello. Se bolliamo tutta l’elaborazione non razionale come sciocchezza, e le nostre sensazioni come elaborazione biochimica, che magari oggi non comprendiamo, ma che la scienza riuscirà presto a chiarire, creiamo un vuoto incolmabile, ci tagliamo le braccia perché non abbiamo capito a cosa servono.

La spiritualità riguarda certo il dolore e la tristezza, come il piacere e la gioia, ma non per annullare i primi in favore dei secondi. Riguarda la capacità di rendere più sensibili questi e altri sensori e di integrarne le indicazioni. Sì, abbiamo anche altri sensori. Il senso del “significato globale”, che Harari liquida frettolosamente, è lì, forse sviluppato in misura differente tra le varie persone.

La meditazione

Il libro sfugge, in parte, a queste critiche dedicando l’ultimo capitolo alla meditazione. Un capitolo molto bello, tra l’altro.

La butta lì, come racconto di un’esperienza personale che ha trovato vantaggiosa.

Giustamente fa notare che la meditazione, pur essendo nata in seno delle religioni non prevede nessun dogma o atto di fede, ma è un semplice strumento che abbiamo a disposizione per migliorare le nostre vite, la nostra capacità di attenzione. Un allenamento a usare meglio la mente.

Purtroppo, anche qui, nel tentativo di scrostare la pratica meditativa dal retaggio religioso finisce per togliere un po’ troppo. C’è uno sforzo di rendere la meditazione un fatto razionale, e credo sia decisamente sbagliato. Indipendentemente dal fatto che un Dio esista o meno, e dal fatto che questa pratica possa metterci in comunicazione con lui, c’è molto, molto che non comprendiamo, su cui la meditazione getta un po’ di luce. Forse questo molto riguarda la comunicazione con gli altri esseri viventi, forse col passato della nostra specie. Forse sono anticipazioni confuse di cose su cui un giorno la scienza saprà fare piena luce.

In ogni caso io non vorrei perdermi tutto questo.

Non capiremo mai il senso della vita, ma il desiderio di capire ce l’abbiamo, e proprio quello dovrebbe diventare la nostra bussola.

L’Hallelujah di Leonard Cohen

Davide guarda Betsabea che fa il bagno. Louis-Jean-François Lagrenée, Public domain, via Wikimedia Commons
Davide guarda Betsabea che fa il bagno. Louis-Jean-François Lagrenée, Public domain, via Wikimedia Commons

Buon 2022. Wow, prima volta che lo scrivo.

Se non altro come proposito di inizio anno vale la pena scrivere qualcosa su questo blog, abbandonato a se stesso ormai da troppo tempo.

Parleremo di una canzone: Hallelujah di Leonard Cohen.

In questi giorni ho riascoltato diverse volte questo bellissimo brano. Credo di essermela ritrovata in qualche playlist natalizia che mettevo per inondare la casa di aria di feste.

Una canzone stranamente/vagamente religiosa. Pare sia molto usata per matrimoni e funerali (al mio la metterei). Finora, avendone capito qualche parola qui e là, ho avuto l’impressione che questo uso pseudo religioso fosse per lo meno incauto. Ho dovuto in qualche modo ricredermi.

A furia di riascoltarla mi è venuta voglia di capire bene di cosa parla, ho cercato il testo, e ho letto un bell’articolo di Alan Light, sulla rivista RollingStones che ne parla.

L’articolo è un estratto di un intero libro che l’autore ha dedicato alla canzone. Voglio raccontare qui quello che mi ha colpito e qualche mia riflessione.

Versioni

La canzone è stata incisa per la prima volta nell’album Various Positions nel 1984. È stata poi cantata da tantissimi altri, compreso lo stesso Cohen in varie occasioni. Quello che stupisce immediatamente è che il testo della prima incisione è diverso da quello delle altre, sembra che l’autore si sia sforzato di rendere il significato della canzone un po’ più comprensibile nelle versioni successive. In alcune versioni ci sono strofe rimosse.

La versione che preferisco è la prima, sia come testo che per la parte musicale (viene eseguita molto lentamente, sembra una meditazione, coi colpi di basso che aggiungono un cuore pulsante alla voce sensuale e sognante di Cohen).

Questa versione si può ascoltare qui.

Struttura e traduzione

Anzitutto si tratta di uno di quei bellissimi pezzi di musica che raccontano se stessi, un po’ come Si Re Si Re Si Mi Si Mi, solo che qui il testo non narra la melodia ma l’armonia, la progressione degli accordi, che è quello che rende la canzone così bella. Infatti piaceva addirittura a Dio, dice l’autore, ma andiamo con ordine.

Davide e la musica

Gerard van Honthorst, Public domain, via Wikimedia Commons
Gerard van Honthorst, Public domain, via Wikimedia Commons

Quasi tutte le versioni iniziano con una citazione biblica (Primo libro di Samuele, capitolo 16 versetto 23), il racconto di Davide che scaccia gli spiriti cattivi da Saul con la sua musica.

Now I’ve heard there was a secret chord

That David played, and it pleased the Lord

Ho sentito di questo accordo segreto che suonava Davide e piaceva al Signore

But you don’t really care for music, do you?

Ma a te non interessa tanto la musica, vero ?

Qui Cohen sembra parlare a una ragazza che cerca di sedurre con la sua musica, ma scopre che lei è interessata ad altro. E comunque ci prova a coinvolgerla in questa sua passione musicale e le racconta com’era questo accordo, come fosse stato lì, come se lui stesso fosse Davide.

It goes like this

The fourth, the fifth

The minor fall, the major lift

Fa così: la quarta, la quinta, casca sul minore, risale sul maggiore

Gli accordi qui sono, in tonalità Do maggiore (ho trovato sia una partitura per chitarra in Do che una per piano in Do#, non so quale sia quella originale): FA maggiore (che è la quarta del Do), Sol maggiore (la quinta), La minore, FA maggiore.

The baffled king composing Hallelujah

Il re sorpreso, sconcertato mentre compone l’Alleluia

Qui sembra riferirsi al processo creativo in sé. Il compositore, l’artista non crea la sua opera, questa appare quasi casualmente, lui ne è solo il tramite, e ne è il giudice, la riconosce come buona e la solidifica, la condivide, ma lui stesso ne rimane stupito.

Passioni Pericolose

Peter Paul Rubens, Public domain, via Wikimedia Commons
Peter Paul Rubens, Public domain, via Wikimedia Commons

Di nuovo una strofa presente in tutte le versioni. Di nuovo due citazioni bibliche, fuse tra loro, come fossero la stessa vicenda. E lo sono, in qualche modo: due uomini potenti che perdono la testa per due donne bellissime. Un po’ Kennedy/Monroe o Clinton/Lewinsky, o Berlusconi/Ruby.

Le citazioni parlano di Davide che vede dal tetto la bella Betsabea che fa il bagno e si innamora di lei (Secondo libro di Samuele, capitolo 11 versetto 2) e di Sansone (Libro dei Giudici, capitolo 16, versetti 4-21) che viene sedotto da Dalila e le rivela che il segreto della sua forza sta nel non essersi mai tagliato i capelli. Dalila, pagata dai Filistei, lo addormenta, lo lega, gli taglia i capelli.

Your faith was strong but you needed proof

You saw her bathing on the roof

Her beauty and the moonlight overthrew you

La tua fede era forte, ma volevi delle prove. L’hai vista dal tetto che faceva il bagno. La sua bellezza e la luce della luna ti hanno rovesciato

She tied you to a kitchen chair

She broke your throne, and she cut your hair

And from your lips she drew the Hallelujah

Ti ha legato alla sedia della cucina. Ha spaccato il tuo trono, ti ha tagliato i capelli. E dalle tue labbra ha tirato fuori un Alleluja

In quella sedia da cucina c’è forse un ricordo personale. Bellissimo quell’Alleluia tirato fuori dalle labbra di un uomo umiliato, sconfitto, ma comunque estatico, felice.

Cohen sembra qui sottolineare che l’estasi passionale è di per sé il colmo dell’espressione umana, al di là delle conseguenze, al di là del fatto che sia un Alleluia sacro o profano (holy o broken, vedremo dopo), quella gioia tirata fuori dalle labbra è una delle cose più importanti che possiamo avere.

Versione originale

Quelle che seguono sono le due strofe presenti solo nella versione originale del 1984.

Qui Cohen fa una riflessione sull’operazione che ha fatto, quella di unire l’Alleluia sacro (Davide che prega) con quello profano. Sembra rivolgersi a un credente che lo accusa di blasfemia.

You say I took the name in vain

I don’t even know the name

But if I did, well really, what’s it to you?

Tu dici che l’ho nominato invano. Ma io nemmeno lo conosco quel nome. Ma anche se fosse, perché è così importante per te ?

There’s a blaze of light

In every word

It doesn’t matter which you heard

The holy or the broken Hallelujah

C’è una fiammata di luce in ogni parola. Non importa quale Alleluia hai sentito, quello sacro o quello rotto

Sta dicendo:

“Non posso essere un blasfemo, sono un ateo. Non ho nominato il nome di Dio invano, perché quel nome neanche lo conosco.

Ma anche se lo conoscessi, perché guardi a cosa significa per me e non piuttosto a cosa significa per te ?.

Ho scritto delle parole bellissime, sei tu che scegli se sono un inno al Signore o semplicemente all’essere umano”

I did my best, it wasn’t much

I couldn’t feel, so I tried to touch

I’ve told the truth, I didn’t come to fool you

Ho fatto del mio meglio, non era tanto. Non potevo sentire, così ho provato a toccare. Ho detto il vero, non sono venuto a prenderti in giro

And even though

It all went wrong

I’ll stand before the Lord of Song

With nothing on my tongue but Hallelujah

E anche se fosse tutto andato male, se l’operazione non mi fosse riuscita. Starò davanti al Dio delle canzoni con nient’altro sulla lingua che Alleluia

Trovo bellissimo questo accenno al sentire o toccare. Sentire Dio, si parla di questo. Non è da tutti, forse è genetico. Ma chi non può sentire Lui può toccare la Sua creazione, e comunque gridare un’Alleluia.

Alla fine la canzone dice questo

Non ti parlo di Dio perché non lo conosco, non son sicuro che esista.

Non ti parlo dell’amore perché quello che ne ho capito è che puoi uccidere chi ti attira di più (da una delle versioni alternative).

Ti posso parlare della musica, che forse riesce a collegare il meglio dell’amore per Dio e dell’amore umano.

E a raccontarli.

L’argine di Fiorano

Stamattina avevo voglia di fare una passeggiata. Voglia di camminare per i campi qui intorno. Fare qualche fotografia.

Mi incammino verso l’argine. Ci sono un sacco di queste stradine che vanno verso i boschetti intorno al paese. Ci trovi spesso gente che porta a spasso cani. Ogni tanto ci andiamo a cercare cose da mangiare: le famiole, credo si chiamino “chiodini” in italiano, sono quei funghi che vengono a cespuglietti, e i luartin, il luppolo selvatico con cui si possono fare insalate o frittate. Non sa di molto, ma è bello mangiare una cosa che hai raccolto tu.

Siamo finalmente sull’argine. È un terrapieno ad anello che circonda per tre quarti il paese. Sul lato non protetto il suolo è più alto e non rischia di allagarsi. L’abitato si propaga su un terreno che si alza tra due colline, una che divide la zona verso Lessolo, l’altra verso la Valchiusella.

L’argine è stato costruito in seguito all’alluvione dell’autunno del 2000. La Dora era esondata e aveva provocato parecchi disastri. Per proteggersi molti dei paesi della zona si sono rinchiusi in questi simpatici anelli, che finiscono per dare un carattere particolare al paesaggio.

All’epoca dell’alluvione in casa eravamo in cinque. Ivo e Rita erano ancora vivi, e Edo era ancora un bimbetto,

Rita è mancata poco dopo: credo che lo stress dell’evento abbia inciso non poco. A una certa età il senso di impotenza di fronte ad un disastro, la paura per il danno alle cose e alle vite stesse, può segnare profondamente un carattere abituato ad avere tutto sotto controllo. Col senno di poi non si era rischiato chissà che, ma lì per lì era sembrata abbastanza preoccupante: elicotteri che prelevavano le persone dalle case e distruggevano tutto quello che c’era intorno, voci di dighe che stavano per essere aperte provocando ondate tipo Vajont. Alla fine ce la siamo cavata con gli infissi da cambiare e un bel po’ di roba da buttare.

Per Edo è stata una specie di festa: lo si vede in un filmato dell’epoca che tira i suoi pupazzetti nella piscina in cui si era trasformato il cortile.

Io ricordo con orgoglio che ero riuscito a fare una moka di caffè con dei lumini.

Ma dicevo dell’argine. Qui è abbastanza basso, siamo verso la parte alta del paese. C’è qualche piccola attività agricola, in genere orti, che è rimasta all’interno. Il grosso dell’estensione del comune è fuori.

Mi piace questa camminata. Il silenzio dei campi. L’argine, come dice Laura, è diventato il boulevard di Fiorano. Ci trovi in genere parecchia gente che ci passeggia, o viene a correre, qualcuno che va in bici. Ma ora non c’è nessuno, sarà l’ora, o il tempo, benchè sia uno dei rari momenti in cui c’è l’erba tagliata.

Questa dell’erba è una cosa buffa: ai cittadini piacerebbe che fosse curato e agibile sempre, ma il comune non può occuparsene, perché l’argine è di proprietà di qualche ente (provinciale credo) che non sente questa necessità: per loro è un opera idrica, non un’area vivibile. Uno dei tanti casi in cui la burocrazia fa danni.

Non so cosa son venuto a fotografare. La banalità credo. La banalità che rivela una qualche bellezza, almeno per me, come la tessitura di questi laghi di granturco.

O le cataste di legna.

I riflessi delle pozzanghere.

Qualche attrezzo agricolo d’altri tempi.

Le montagne intorno.

O le piccole cose. I giochi di luce che rendono interessante l’erba dei prati.

Le gocce di rugiada.

La fotografia è un hobby riesumato dopo tanti anni. I miei hobbies sono molto ciclici, non so perchè.

Avevo sui sedici anni, o qualcosa di meno, quando ho costruito la mia prima camera oscura, nella cantina dei miei. Ricordo che andavo da Marvin, a Torino (non era ancora in via Lagrange, era dalle parti di corso Principe Oddone) a comprare gli acidi e le bobine di pellicola che avvolgevo, al buio, in rocchetti usati, per spendere un po’ di meno. L’ingranditore era una cosa piuttosto economica. L’ho buttato via, tra le cose infangate, proprio dopo l’alluvione, dopo anni di inutilizzo.

Non credo inseguissi una qualche idea artistica all’epoca. Ero più attirato dalla magia della cosa in sé. Soprattutto durante la stampa: queste immagini in bianco e nero che apparivano lentamente nella bacinella, alla luce della lampada giallo verde.

È tutto cambiato ora. Però mi ha colpito vedere che il processo di sviluppo della foto di fatto esiste ancora. Le macchine fotografiche compatte, o ancora di più, i cellulari, danno un’idea, fallace, di immediatezza. Scatto e la foto è lì, pronta per essere condivisa. Ma abbiamo solo realizzato una Polaroid più facile da usare. Una macchina a sviluppo automatico più sofisticata. Ma, come in ogni automatismo, le scelte vengono comunque fatte, semplicemente le fa qualcun altro.

Con le reflex, ancora oggi, il processo che passa dall’immagine scattata a quella pronta per essere condivisa o stampata è lungo e complesso.

La macchina salva in un file RAW, tutto quello che il sensore è riuscito a catturare, e sta ancora al fotografo, non più in un laboratorio pieno di acidi, ma davanti a un PC, tirarne fuori qualcosa che soddisfi il suo senso estetico.

I sensori delle fotocamere, ancora oggi, non sono in grado di catturare tutta l’estensione tonale che l’occhio percepisce, ma catturano comunque molto di più di quello che un display (o, peggio, un pezzo di carta stampata) sono in grado di rappresentare. Ci sono quindi un sacco di scelte da fare. Lo stesso fotogramma può contenere dettagli molto luminosi e molto scuri, ad esempio, e non possono coesistere, per i limiti detti sopra, nella stessa immagine. I colori catturati non sono mai quelli giusti, perché il nostro occhio/cervello si adatta alla luce che c’è e vede bianco anche quello che di fatto è giallo sotto una lampada. Insomma, l’immagine finale è sempre frutto di una post-elaborazione. La fotografia non è mai rappresentazione della realtà, è un mezzo espressivo con cui cerchiamo di trasmettere qualche emozione.

Quando ho scattato questa foto ho ripreso una fetta molto più grande della pianta. Mi sono accorto solo al PC della cimice e, ancora dopo, mentre la ingrandivo, degli altri insetti più piccoli che stanno divorando i chicchi.

Qui siamo all’esterno dell’argine. Ora è già più profondo. L’effetto è il prodotto di un preset di Luminar 4 che si chiama “Deep sky”: mette in risalto i dettagli del cielo. Quei raggi di luce che partono dalle nuvole io non li vedevo, ma il sensore li ha registrati e il software li ha tirati fuori. Il colore dell’erba è venuto fuori un po’ innaturale, forse, ma nel complesso mi piaceva. Volevo mettere in risalto le varie linee della strada, dell’argine, degli alberi che si intrecciavano. Si poteva sicuramente far meglio, ma sto imparando.

Una delle modalità espressive che trovo più interessanti è la cosiddette Priorità di diaframma.

Perché una foto sia accettabile, in termini di quantità di dettagli, al sensore deve arrivare un determinata quantità di luce, ma a far sì che questo succeda concorrono diversi aspetti: la sensibilità, il tempo di esposizione e l’apertura del diaframma.

La sensibilità determina quanta luce in totale è necessaria. Il tempo di esposizione determina per quanto tempo si fa arrivare luce sul sensore, e l’apertura del diaframma determina quanto è grande il buco da cui entra la luce.

I primi due, sensibilità e tempo, hanno un significato fisico completamente diverso tra le macchine analogiche e quelle digitali. Per aumentare la sensibilità, nelle prime, si spalmavano sulla pellicola sali d’argento di dimensioni più grandi e questo produceva le caratteristiche foto a grana grossa. Nelle macchine digitali i sali d’argento sono sostituiti da matrici di milioni di fotodiodi. I segnali elettrici prodotti vengono raccolti, amplificati e convertiti in numeri per la successiva elaborazione. L’aumento di sensibilità viene ottenuto nella fase di amplificazione: ad alte sensibilità corrispondono alte amplificazioni. E l’amplificazione di segnali deboli produce il cosiddetto rumore.

Curioso che alla fine tutto questo produca, nelle macchine digitali, risultati simili a quelli delle analogiche: ad alte sensibilità si ottiene di nuovo la grana grossa, anche se a sensibilità piuttosto più alte, bisogna dire.

Anche il tempo di esposizione ha cambiato significato fisico. Nelle macchine analogiche c’era un otturatore (nelle reflex una tendina che si apriva lasciando che la luce colpisse la pellicola per un tempo determinato). Nella maggior parte delle digitali moderne questo apparato meccanico non esiste più: il tempo di esposizione è governato da meccanismi completamente elettronici. Ma, di nuovo, l’effetto sulla foto è uguale: tempi di esposizione più lunghi permettono foto con meno luce, ma, inevitabilmente, più mosse.

L’effetto della maggiore o minore apertura del diaframma è l’unico aspetto dell’esposizione che è rimasto immutato col passaggio al digitale, sia sul piano logico che su quello del meccanismo fisico soggiacente. Questo perché, anche nelle macchine moderne, viene realizzato nell’unica parte della fotocamera che è rimasta analogica: l’obiettivo.

Il diaframma è un anello di lamelle che si apre o chiude comandato dall’elettronica che gestisce l’esposizione, realizzando un foro di diametro variabile. Quando il foro è alla larghezza massima i raggi di luce attraversano completamente la lente (beh, più di una se non avete comprato l’obiettivo in cartoleria), quando è chiuso i raggi attraversano solo la parte centrale della lente. E, ovviamente ci sono tutte le gradazioni intermedie tra le due posizioni. Obiettivi più costosi permettono aperture maggiori senza eccessive distorsioni. Gli obiettivi zoom, anche costosi, un po’ di meno.

Con le macchine moderne non è indispensabile preoccuparsi più di tanto dei meccanismi dell’esposizione: hanno automatismi che, in genere, prendono le decisioni giuste. Ma è possibile dir loro che una parte della decisione la vogliamo prendere noi.

Ad esempio si può scegliere di definire noi la sensibilità, per ottenere più flessibilità di manovra a scapito della qualità dell’immagine finale, o per forzare la qualità massima a scapito di qualche limite in più nella ripresa.

O si può scegliere di determinare noi la velocità di scatto per bloccare cose in rapido movimento (velocità alte) o per ottenere strisciature controllate anche da oggetti in movimento lento (ad esempio, con una velocità di scatto lenta si possono rendere mosse le auto che si muovono dietro il nostro soggetto).

Ma la cosa più interessante, dicevo, è determinare l’apertura del diaframma, perché maggiori o minori aperture determinano una messa a fuoco più o meno precisa.

Il meccanismo di messa a fuoco avvicina o allontana la lente dal sensore facendo in modo che i raggi di luce provenienti dagli oggetti ad una certa distanza finiscano sul sensore in modo puntiforme. I raggi provenienti da oggetti più vicini o più distanti arrivano al sensore sotto forma di cerchi più o meno ampi (tanto più grandi quanto più grande è l’errore e quanto più aperto è il diaframma). Questo offre una possibilità espressiva che amo molto: quella di poter controllare l’ampiezza di questi cerchi di confusione.

In pratica, ad aperture molto ampie del diaframma, e soprattutto usando un teleobiettivo, è possibile fare in modo che quello che sta dietro al soggetto diventi sfocato e indistinto, isolando gli oggetti in primo piano anche se illuminati nello stesso modo.

Così, ad esempio.

Ma torniamo alla passeggiata.

Siamo arrivati al punto in cui la strada principale del paese attraversava il punto in cui è successivamente passato l’argine.

È stata realizzata una deviazione più a monte, che scavalca l’argine senza pendenze esagerate, e il vecchio pezzo di strada è diventato un ramo morto utilizzato solo da chi abita nelle case in questa parte del paese, e da qualche trattore.

C’è un sacco di roba che vola in giro. O che si riposa sui fili dell’alta tensione. I tralicci creano ricami interessanti.

Un teleobiettivo sarebbe stato più utile dello zoom 24-70 mm che sto usando in questa passeggiata, ma i 24 megapixel della macchina aiutano parecchio se la destinazione dell’immagine è il display di un PC o di un cellulare.

Si trova anche chi potrebbe volare, ma è pigro, e cammina. La costruzione sulla sinistra contiene il gruppo elettrogeno. Viene manutenuto dalla protezione civile, credo, ogni tanto vedo che fanno esercitazioni qua davanti. Serve per alimentare le pompe in caso di alluvione, perché l’argine non è impermeabile, la struttura è una gabbia metallica piena di sassi e ricoperta di terra. Può rallentare l’acqua ma non impedirle di entrare per lungo tempo. L’alluvione del 2000 è durata 30 ore.

Così servono le pompe per ributtarla fuori, serve avere elettricità per farle funzionare, e la rete elettrica è la prima cosa che salta in caso di alluvione.

Siamo arrivati al punto in cui la strada scavalca l’argine. Lì a sinistra ridiscende in paese.

Interessante l’effetto di distorsione prospettica evidenziato dalle ultime due foto: quella sopra scattata con una focale più lunga (70mm) e quella sotto a 24mm. Guardate la distanza tra il cartello di ingresso del paese e quello di divieto di accesso: nella foto in alto sembrano nello stesso posto, ma il grandangolo sotto ci rivela una distanza ben maggiore.

Torno a casa, e c’è ancora qualcosa che svolazza in cortile.

La religione dei pazzi e l’amore

Photo by David Clode on Unsplash
Photo by David Clode on Unsplash

Provo ad avventurarmi su un terreno minato. Finora ho cercato di evitarlo, perché è piuttosto insidioso, ma forse è venuto il momento. Parlo del rapporto tra spiritualità e altruismo, amore per il prossimo.

In un post precedente sulla spiritualità ho accennato di sfuggita agli altri come compagni di viaggio.

Gli altri, intorno, sono dei compagni di viaggio. Sono immersi nello stesso plasma, stanno svolgendo un ruolo analogo al nostro. Hanno punti di vista complementari. Gli eventuali conflitti con loro sono parte del meccanismo di cui facciamo parte, non c’è bisogno di demonizzarli. L’eventuale amore (parola sbagliata, qui, forse meglio attrazione/con-passione) che proviamo nei loro confronti pure, non c’è bisogno di divinizzarlo.

Penso che in fondo sia tutto lì. Ma è una riflessione che mi riempie di interrogativi, perché sembra stridere leggermente con l’importanza data all’altruismo dalle varie religioni.

Ma andiamo con ordine.

Ingredienti: un pentolone, un termometro e una manciata di istinti

Prendiamo un bel calderone e iniziamo a versarci dentro vari elementi, e guardiamo come si alza o si abbassa la temperatura all’interno. Per convenzione diciamo che a temperatura alta corrisponde alto altruismo, alto amore.

adamo ed eva

Anzitutto dobbiamo metterci gli elementi base, quelli che derivano dalla nostra evoluzione. Niente religione per ora, e neanche ragione, solo istinti.

Siamo, in quanto individui, il campo di battaglia di geni in competizione. Il banco di prova in cui associazioni di geni si confrontano. E la regola di base è che vince il più adatto. Lo scopo è di selezionare i geni migliori, e non c’è esclusione di colpi, niente prigionieri.

Temperatura bassissima. Se il criterio fosse solo questo ognuno di noi avrebbe tutto l’interesse a uccidere tutti gli altri per far primeggiare il proprio gruppo di geni.

Dopodiché, alla sua morte la nostra specie sarebbe estinta. Quindi nel calderone non ci può stare solo quello. Lo scopo della competizione genetica non può essere il primeggiare di un individuo. Dobbiamo permettergli di avere dei figli perché il gioco continui.

E allora dobbiamo metter nel crogiolo anche qualche istinto a lasciare in vita qualcun altro di sesso opposto con cui produrre una discendenza. Siamo arrivati ad Adamo e Eva.

Proviamo a chiamare amore questo istinto a lasciare altri in vita. Così, tanto per capirci.

la tribù

Ma ancora non basta. I figli devono anch’essi restare vivi, se no il gioco finisce comunque. E allora amore anche per i figli.

Ma comunque non basta. Il mondo è pieno di insidie. Una singola famiglia potrebbe morire accidentalmente. L’evoluzione non può correre il rischio. È necessario per i geni accettare anche qualche piano B.

Quali sono i gruppi di geni che comunque vorremmo salvare se noi fossimo costretti a lasciare il tavolo ?

Probabilmente quelli dei nostri genitori e dei nostri fratelli (perché i loro geni sono i più simili ai nostri). Quindi amore, ancora, un po’ di meno, anche per loro. E via così. Ancora amore, sempre un po’ di meno, per i cugini, poi per i parenti meno prossimi e avanti così. 50 sfumature di amori.

i conoscenti

Ma non basta ancora. Una famiglia, anche grande, da sola non basta. Ci servono individui con mix diversi di geni con cui noi, e i nostri figli e parenti, possiamo incrociarci per produrre altri esperimenti genetici, combinazioni più ricche. Altre sfumature di amore.

Avete presente quel proverbio arabo,

io contro mio fratello,

io e mio fratello contro mio cucino,

io, mio fratello e mio cugino contro …

Ecco, siamo lì.

il villaggio

E non basta ancora. Abbiamo bisogno di difenderci, trovare cibo, imparare, modificare la natura, gestire rapporti sociali in strutture, a questo punto, complesse.

Ci servono gli altri. C’è poco da fare. In teoria ci servono tutti.

Anzi, ci servono anche i geni delle specie diverse dalla nostra, gli animali, le piante, i microorganismi, i virus. L’ecologia è una forma di amore, in questo senso.

La temperatura nel calderone sembra diventata altissima. Ma la raffreddiamo subito.

gli amici

Il numero di persone con cui possiamo interagire, quelle con cui riusciamo a mantenere un contatto personale sembra sia limitato a 150 unità (il famoso numero di Dumbar). Pare sia funzione delle dimensioni della neocorteccia cerebrale.

Quindi dobbiamo sfoltire il gruppo delle persone con cui mantenere relazioni (ovviamente un presupposto per questo amore). Dobbiamo scegliere quelli che ci servono di più. Dosare il nostro amore in modo disomogeneo.

Possiamo tra quelli di sesso opposto scegliere solo i più belli, ad esempio. Tra i nostri figli quelli più promettenti, tra i parenti i più generosi.

Tra i conoscenti quelli più in sintonia con noi. Li chiamiamo amici.

Tra i batteri quelli che fanno lo yogurt e la birra, i virus li escludiamo tutti.

con gli istinti arriviamo qui

Direi che mettendo solo elementi istintivi nel calderone arriviamo fin qui.

La temperatura non è bassissima, ma neanche troppo alta. Il nostro amore abbraccia una cerchia di persone limitata a quelli di cui percepiamo un utilità immediata.

Gli altri diventano rivali.

Istintivamente manteniamo questo livello dinamico. Il risultato di forze antagoniste.

Stiamo chiamando amore qualcosa di istintivo, chimico. Reazioni governate da ormoni. La tenerezza verso i partner sessuali, i bambini, gli anziani. Il senso di compassione verso quello che soffre e, contemporaneamente, il senso di repulsione, magari verso la stessa persona, che può metterci al riparo da malattie. L’aggressività verso i concorrenti sul piano sessuale o quello della sopravvivenza, verso chi non sentiamo parte della nostra tribù.

Temperatura media, quindi, al livello istintuale.

Un po’ di razionalità …

Ok, era il cervello da rettile e da mammifero. Poi è arrivata la corteccia cerebrale. La razionalità.

La temperatura tende a muoversi con movimenti più ampi. Si può alzare molto o abbassarsi drasticamente.

… che scalda …

Si alza perché razionalmente ci rendiamo conto che far parte di un gruppo più ampio ci dà dei vantaggi. Essere parte di un villaggio è meglio che essere una famiglia nomade. Una città grande è meglio di un villaggio, è più ricca, offre opportunità, anche di incontri, di ricombinazioni genetiche, di commercio. Ci rendiamo conto che commerciare può essere più vantaggioso che fare guerre. Insomma, ci sono tensioni razionali che tendono ad allargare il gruppo di persone verso cui proviamo almeno rispetto (difficile chiamarlo amore se si allarga troppo).

Il linguaggio, la scrittura, i media, ci permettono di creare gruppi sempre più allargati, alla faccia di Dumbar. Abbiamo inventato il pettegolezzo (e i social) per avere una misura del giudizio di utilità per la comunità di persone con cui non abbiamo relazioni dirette. “Quello è uno competente”.

… e che raffredda

Allo stesso tempo, con la razionalità arriva la paura, e con essa la guerra. La razionalità delinea l’ego, e crea l’idea di poter sfruttare gli altri. Forme nuove di disamore. Nuovi veleni, razzismo.

Il pettegolezzo funziona nei due sensi. “Di quello non ci si può fidare”

ma il bilancio è positivo

Anche qui bilanciamenti tra forze antagoniste. Ma per il solo effetto di raffinamenti della razionalità la temperatura mediamente si alza.

Noi accettiamo, parlo degli individui di questo secolo, quelli più maturi almeno, che sia un bene includere nel nostro cerchio di amore più persone possibile. Nascono organismi di accordo tra le nazioni, trattati.

Non siamo ancora in una situazione idilliaca: le guerre continuano a esserci, lo sfruttamento dei popoli e delle singole persone pure. Ma stiamo procedendo nella direzione giusta. Anche senza religioni sono convinto che si arriverà a una situazione in cui ideali di pace e uguaglianza saranno linee guida scontate.

La spiritualità come guida a risolvere i conflitti in termini collaborativi

Cosa aggiunge al calderone la spiritualità allora ?

La prima idea che vien in mente è che la persona con una vita interiore più ricca tenda ad andare oltre. Tenda, diciamo, a strafare, ad annullare, in misura più o meno forte il proprio ego a vantaggio del suo prossimo.

Ma di nuovo, questo non è esclusivo appannaggio delle persone aperte ad un ascolto interiore. Ci sono tante persone, al di fuori del perimetro delle spiritualità e delle religioni, che manifestano questa sorta di eroismo, e lo fanno in forza di sensibilità e considerazioni che derivano dalla sfera della razionalità, o semplicemente dalle consuetudini del contesto di appartenenza.

E quindi, di nuovo, qual’è la peculiarità che deriva dalla spiritualità ?

ci arriva prima

Secondo me che tende a farlo prima. Parlo di epoche storiche.

Ho detto sopra che stiamo migliorando. Siamo passati, nel corso della storia, da momenti in cui la prevaricazione e la violenza potevano essere considerate la norma, ad altri in cui quel tipo di comportamento viene stigmatizzato come inappropriato. Da epoche in cui un uomo poteva vedere un suo simile solo come un nemico o un utilità, a forme sociali, via via più complesse, in cui rispetto, altruismo, compassione sono diventate leggi, le insegnamo ai giovani, puniamo chi non le rispetta.

Guerre e prevaricazione esistono ancora, ma ci sono forti tensioni, anche nel mondo laico, per ridurle.

impalcature spirituali

Ma questa costruzione, questa tessitura è molto faticosa. La situazione in cui due persone, due gruppi, decidono di fidarsi l’uno dell’altro, è un equilibrio instabile.

Solo una volta che è stato sperimentato ha qualche probabilità di durare. Se le due parti provano i vantaggi del rispetto reciproco hanno un motivo razionale per restare in quella condizione. Ma, prima di arrivarci, la paura e la diffidenza dovute ai nostri istinti tendono ad avere la meglio. L’uomo con la sola razionalità non riesce a tessere questa tela.

In questa situazione il pazzo, la persona che vede il mondo con occhi diversi, che intravede la pochezza dell’ego, la pochezza del singolo rispetto al tutto, diventa l’ago che guida il filo nella direzione giusta. Il sarto che tesse l’imbastitura. Il sale della terra.

Una volta che quel fragile filo è stato tessuto, altri ne seguiranno, altri intuiranno la forma di quel mondo come potrebbe essere, e metteranno altri fili.

Generazioni dopo generazioni, fino a che uccidere o rubare diventeranno da peccato reato. Fino a che il commercio sostituirà la guerra. Fino a che l’aiuto ai deboli e ai bisognosi, il rispetto per la dignità umana saranno scritti in qualche costituzione. Fino ad un governo mondiale, e, chissà, fino all’abolizione di qualsiasi legge o esercito o polizia, perché le persone si regolamenteranno autonomamente.

La spiritualità come freno all’arroganza della ragione

Ho letto di recente questa Intervista ad Edgar Morin su Avvenire. È molto bella. Parla dell’imprevedibilità della storia. Dell’essere quello che ci accade determinato da fattori troppo complessi per essere capiti in termini razionali.

Mi ha fatto pensare che, in fondo, questo è un altro aspetto importante della spiritualità. Quello di ridare dignità alla pazzia, torno lì. Ridare dignità alle intuizioni, all’accettare che il mondo “ha le sue ragioni”, che non capiremo mai fino in fondo.

Provate a pensare all’amore per i più deboli. È una cosa che razionalmente è piuttosto inconcepibile. È piuttosto facile, anzi, trovare ragioni per sterminare popolazioni intere che riteniamo inferiori. È piuttosto facile trovare motivi per mettere ai margini le persone meno belle, meno intelligenti, meno capaci, meno produttive, meno sane, troppo diverse da noi. In fondo, anche una volta accettato che la cosa importante non è il mio benessere personale, ma il futuro dell’umanità, non sarebbe giusto investire di meno (se non uccidere) quelli che alla costruzione di questo futuro non sono in grado di partecipare ?

Secondo me, anche se magari inconsciamente, chi agisce in senso contrario a questa egemonia degli utili al futuro, sta asserendo che quello che serve alla costruzione di un mondo migliore semplicemente non possiamo saperlo.

La spiritualità può mettere argine a certe follie della ragione.

La spiritualità permea gradualmente la cultura

È interessante vedere che è il metodo stesso della spiritualità che si diffonde. Questo pescare risposte nella nostra irrazionalità interiore. Questo intravedere un mondo migliore, e crederci, creare utopie, passa lentamente, per osmosi, dai pazzi agli altri. Viene accettato come parte della cultura di massa. L’arte ne è un buon esempio, la stessa religione, per certi versi è parte di questo processo.

Ne vediamo tracce in posti insospettati. Avete presente la famosa affermazione di Marx “la religione è l’oppio dei popoli”. Peraltro assolutamente condivisibile: la religione è stata davvero, per lungo tempo, strumento in mano agli oppressori per tenere buono il popolo degli oppressi. Forse non tutti hanno letto la frase completa a cui questa citazione appartiene:

La religione è il singhiozzo di una creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, lo spirito di una condizione priva di spirito. È l’oppio dei popoli.

Come dire: la religione è un male perché partecipa a soffocare la spiritualità. L’uomo non oppresso, quello i cui bisogni di base sono soddisfatti, compreso quello della libertà, è naturalmente portato a una vita interiore ricca. La religione sostituisce artificialmente questo ossigeno con una finzione, con un aria viziata appena sufficiente a tenere la gente viva e tranquilla.

I profeti che vedono il passato

La religione racconta spesso scoperte spirituali del passato, che ormai sono state, almeno in parte, digerite dalla cultura, e suonano prive di novità.

Come una guida alpina che descrive passaggi più in basso, quelli che buona parte della cordata ha già attraversato.

Un esempio fra i tanti possibili: avete presente il famoso passo del vangelo (questo è Matteo)

se amate quelli che vi amano, quale merito ne avete? Non fanno così anche i pubblicani? E se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario? Non fanno così anche i pagani?

Non vi suona un po’ banale ?

Non voglio dire che tutte le persone di questo mondo vivano secondo questi principi. Non è difficile individuare molti, anche tra i nostri politici, che sembra non li abbiano capiti (e paradossalmente sono tra quelli che difendono un certo tipo di religione). Ma, a parte questi casi perversi, oggi è facile trovare tantissimi laici e atei che guardano ai rivali, ai nemici cercando di capire le loro motivazioni. La gentilezza, il salutare tutti, “mi casa es tu casa”, sono tratti ormai caratteristici dell’uomo moderno. Magari non è proprio amore, ma basta a togliere alla frase sopra il potere esplosivo che quelle stesse parole potevano avere duemila anni fa.

Il tesoro sepolto in un campo

Ecco, credo che tutto questo ci aiuti a capire un po’ di più di cosa è davvero la spiritualità. Di cosa quei pazzi che mettono insieme i loro sogni stanno vedendo.

Vedono un mondo in cammino e vedono che la destinazione non è visibile. Che siamo guidati, ma non sappiamo verso dove.

Vedono, un’umanità che può diventare diventare alveare.

Vedono gli individui assaporare questa situazione di equilibrio instabile perdurare.

Vedono un mondo in cui ogni singolo potrebbe facilmente bloccare l’ingranaggio. Ma non lo fa, perché nessuno può più rinunciare alla bellezza di quell’ormai assaporato regno di Dio.

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La religione dei pazzi – Riflessione

Ieri sera abbiamo fatto una bella chiacchierata, organizzata da Antonio, sulla Religione dei pazzi. C’eravamo Francesco, io, Antonio, Vic e Luca (in ordine di apparizione). Sono venute fuori diverse cose interessanti: me/ve le scrivo, riflettendoci ancora un po’.

Pesci

Vic faceva notare che l’immagine del pesce religioso nella bolla è offensivo per un credente. Che presuppone una certa arroganza in chi si identifica nel pesce fuori, come se dicesse “Io ho capito tutto, voi poveretti chiusi lì dentro …”.

Touchè. Sì, forse un po’ di arroganza c’è. Eppure, anche sforzandomi di non esprimere giudizi, di dare valore all’esperienza di ognuno, io una forma di limitazione nel non provare a nuotare un po’ più in là ce la vedo.

Antonio la mette in un altro modo, molto interessante, as usual. Secondo lui quell’immagine esprime un giudizio di valore opposto a quello che vede Vic: “Il pesce nella boccia non ci nuota in mare aperto, ma il mare lo guarda. Quello fuori perde tempo a guardare il pesce nella boccia, anziché guardare il mare, che, invece sarebbe la cosa importante”. Touchè anche qui.

Comunque ho cercato di migliorare col disegno nuovo (chiedo scusa per l’editing grossolano). Ora non guardo più il pesce nella boccia, ma guardo il palombaro, per cui l’obiezione di Antonio permane. Non so se Vic si riconosce di più nel palombaro.

È un’immagine che ispira altre considerazioni: è proprio vero che valgono mille parole, magari mille per ognuno di quelli che la guardano, esplicito qualcuna di quelle che dice a me.

Anzitutto sono due tipi di persone diverse il pesce e il palombaro. Forse pesce ci nasci, non lo puoi diventare. L’umano (l’essere razionale) può essere attirato dal mare, avventurarcisi. Ma conserva dei limiti. Ha un tubo che lo lega alla barca sopra, non può allontanarsi più di tanto.

Quelli sulla barca li vedo come metafora della gerarchia ecclesiale. Non si bagnano, non fanno davvero un’esperienza spirituale. Ma hanno almeno il merito di avertici portato in mare.

Forse potremmo aggiungerci (troppo casino disegnarli, immaginateli) degli altri personaggi a livelli diversi di profondità. Un sacerdote che fa snorkeling, mezzo fuori e mezzo dentro all’acqua. Un monaco che fa immersioni, un po’ più immerso del sacerdote.

Il palombaro secondo me è un mistico, una persona che ha trovato nella meditazione, nella preghiera, la cosa più bella che un essere umano può fare. Il pesce fa la stessa cosa. Ma non lo sa. È il pazzo. E tutti e due guardano il mare, e si guardano anche tra loro, perché, in quel momento, il mare sono anche loro.

Linguaggi

Francesco ha fatto un paragone (che devo dire mi ha fatto sorridere) tra il mio linguaggio e quello di Papa Francesco. Ha paragonato i due modi di fare un discorso spirituale. Secondo lui quello del Papa è più semplice, più diretto, parla più al cuore di ognuno. Il mio linguaggio l’ha trovato difficile, per iniziati.

Forse ha ragione, ma mi chiedo se non sto provando a usare un linguaggio da pesce. Se la sensazione di scarsa familiarità non sia semplicemente data dal fatto che nella bolla, o sulla barca non si parla così. Forse se provi a raccontare paesaggi diversi, usanze diverse, suoni sempre un po’ straniero.

O forse no, immagino che Gesù si facesse capire bene. Forse non parlava tanto.

Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno

Mi viene in mente il famoso detto Zen

Chi sa non parla; chi parla non sa

Magari la cosa giusta sarebbe non parlare proprio. Ma allora neanche leggere: sentitevi fuori posto anche voi.

Le api e la morte

Ho lasciato per ultima la cosa che ho trovato più interessante.

Nel post precedente avevo dato per scontate alcune cose che consideravo mattoni fondamentali di ogni approccio alla spiritualità o alla religione. Quei tesori, scoperte, che ritenevo comuni a tutti. E, invece, sembra che non lo siano.

Parlavamo di questo cambio di prospettiva a cui inevitabilmente la spiritualità ti porta: quello di non considerare più te stesso il centro del mondo, ma di tendere a sentirsi più cellule di un organismo in evoluzione.

Antonio ha introdotto la metafora dell’alveare. L’intelligenza collettiva che emerge da un gruppo di individui. La spiritualità ci porta lì, una delle prime scoperte che fai scendendo in acqua è che l’acqua non c’è più. Per il pesce almeno. Che sei diventato mare.

E se sei un’ape e l’intelligenza che conta è quella dell’alveare, o se sei un pesce e quello che conta è il mare, è davvero così importante se muori ?

Siamo così arrivati a parlare di resurrezione. Di quella nostra, e di quella di Gesù, che Francesco sottolineava essere la garanzia della nostra e il fondamento della fede Cristiana.

Ci siamo, credo, avvicinati ad un punto importante della questione.

Puoi credere che la morte non sia un fatto importante

  • perchè la vita va avanti ed è quella la cosa importante e non la tua individualità,
  • o perché credi che la tua individualità verrà preservata.

Sono due immagini della resurrezione. Forse la prima non esclude la seconda. Ce n’è una terza, ne abbiamo anche accennato: il fatto che l’individuo continua ad esistere nella memoria di quelli che restano vivi. Le sue opere i suoi affetti lasciano un traccia per sempre.

Per me la seconda, il fatto che la nostra individualità, le nostre memorie, vengano preservata, dopo la morte, in un ipotetico al di là non è così importante, per Luca a quanto pare lo è.

Secondo Antonio è perché sono brutto: se fossi un bel figo ci terrei di più a conservare questo privilegio.

Lo dice anche De Andrè:

Prelati, notabili e conti

sull’uscio piangeste ben forte;

chi bene condusse sua vita,

male sopporterà sua morte.

Straccioni che senza vergogna

portaste il cilicio o la gogna

partirvene non fu fatica,

perché la morte vi fu amica.

Ma questo non vuol dire che l’amore per la propria individualità (amata al punto di volerla conservare dopo la morte) rischia di essere un grosso freno alla scoperta dei tesori interiori ?

Quel

È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio.

Non sta parlando di questo ?

O anche

Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio

Oppure

Se non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli

Secondo me tutti questi passi parlano solo della paura della morte. I bambini non hanno paura di morire, più invecchiamo e più ne abbiamo.

Eppure la morte, intesa come annullamento del senso di sé, la sperimentiamo tutte le sere, quando ci addormentiamo. Smettiamo di esistere in quanto individui: è solo la nostra razionalità che ricuce l’individuo che si è addormentato con quello che si sveglia al mattino. Addormentarsi è un incredibile atto di fiducia nel mondo, e lo facciamo tutti continuamente.

Papa Francesco ha detto che “dorme come un legno”. È una delle cose più belle che gli ho sentito dire.

La religione dei pazzi

Mi è venuta voglia di scrivere qualche riflessione sulla religione rimuginando su un commento di Vic all’Omelia di Pasqua. Ho risposto al suo commento, ma ho continuato a pensarci. E lo sto ancora facendo.

Pazzia e spiritualità

Provate a pensare a una persona, la definiremmo psicologicamente disturbata, che è convinta che non bisogna pestare le fughe tra le piastrelle mentre si cammina su un marciapiede. Se lo fai ti succedono cose brutte. O se non lo fai te ne succedono di belle, non so, forse è lo stesso.

Ci sono persone persone così. Credo sia un tipo di pazzia comune. Se non sono le fughe tra le piastrelle è qualcos’altro, ma magari tutti abbiamo qualche momento del genere.

Mi viene in mente un episodio di Don Juan, di Carlos Castaneda, in cui l’autore e lo stregone sono seduti su una panchina del parco e Don Juan vede una bella ragazza e dice all’altro: “Se quella ragazza verrà a salutarci sarà un buonissimo segno”. Cose così. Secondo me siamo tutti più o meno immersi, o almeno esposti a queste cose che razionalmente definiremmo pazzie.

Perché succedono ? Perché ogni tanto clicchiamo il “Mi sento fortunato” di Google ? Perché compriamo un gratta e vinci sapendo che è praticamente impossibile non rimetterci ? Perché cerchiamo quadrifogli, perché ci fidiamo istintivamente di una persona e non di un’altra senza conoscere nessuna delle due ?

Un mondo oscuro e magico

Perché notiamo continuamente parallelismi, coincidenze ?

C’è una parte di noi, una grossa parte del nostro pensare, del nostro vivere, che lavora così. Siamo stati programmati, siamo evoluti, per lavorare con questo pattern matching, con questa capacità, bisogno, di fare associazioni. Tra qualsiasi e cosa e qualsiasi altra. E alcune di queste associazioni assumono un significato importante, e non riusciamo a capire perché. Sono il risultato di un elaborazione che non possiamo controllare e si impongono con una forza propria, non derivata da nessun ragionamento.

La nostra razionalità tende a fornirci delle certezze, un mondo definito, stabile, ma nel profondo, anzi, appena sotto la superficie, viviamo in un mondo sconosciuto, in cui la magia è la norma.

La spiritualità vive in quest’altro mondo, ha le sue radici lì. Vive della nostra percezione, più o meno inconscia, più o meno rimossa, più o meno relegata al rango di sintomo di insanità mentale, di questo mondo che non sappiamo spiegare. Di questo mondo che non si accontenta di nessuna spiegazione razionale.

Un mondo ricco

È un mondo ricco quello interiore. Ed è il nostro vero mondo.

Quello razionale è solo una facciata che creiamo per permettere la vita sociale, l’avatar con cui ci presentiamo in pubblico.

C’è di tutto nel mondo interiore, ci sono le pulsioni necessarie a garantire la continuità della nostra esistenza come individui e come specie, la fame, la paura, il sesso. C’è la pace o il terrore di territori che vanno oltre i nostri limiti, il bisogno di un senso, di indicazioni, ci sono ricordi. C’è la nostra storia passata, soprattutto interiore. Il senso di quello che siamo tradotto in sensazione, in emozione. C’è il calore delle persone che amiamo. L’angoscia di quello che non riusciamo a capire. Ci sono le persone che sono morte. Quelle importanti che non abbiamo mai conosciuto e le cui opere hanno comunque lasciato tracce, altre emozioni in quel paesaggio. C’è un giudizio continuo su noi stessi, una bussola che ci indica, di nuovo sotto forma di emozioni, come la tristezza o l’euforia, se siamo sulla strada giusta.

E noi con questo mondo dialoghiamo costantemente, anche senza rendercene conto. Ogni evento che si presenta ai nostri sensi, ogni incontro, ogni accadimento del mondo razionale viene tuffato in quel marasma e ne esce sotto forma di altre emozioni, intuizioni. Notare una coincidenza non è cosa da poco, è il risultato di una digestione avvenuta lì dentro.

E queste emozioni si rituffano in quel calderone e ne escono sotto forma di idee, di programmi, necessità, di bisogno di agire.

Ponti

La spiritualità ha le sue radici lì, ma non resta immersa in quel mondo. Viene a galla nel mondo razionale e tenta di fare un ponte.

La spiritualità è un ragionamento sul mondo interiore.

Tenta di recuperare una qualche unità del nostro essere. Tenta di fornire spiegazioni che soddisfino sia la razionalità che questa inconoscibilità sotterranea, questo senso del mistero.

Tenta, soprattutto, di comunicare. La spiritualità vive della percezione degli altri come compagni di viaggio. Come ombre, sconosciute anche loro, in questo mondo interiore, ma che sentiamo persi come noi. Altri che si muovono a tentoni nel buio, come noi, e a cui vogliamo tendere la mano per cercare una strada insieme. E non solo gli altri di adesso, gli altri vicini. Anche quelli lontani, o quelli delle stagioni trascorse. Confrontiamo i racconti delle ombre che abbiamo visto. Le leggende di città in grotte sconosciute, di fiumi di lava, laghi sotterranei, di vento fresco che scaturisce da qualche roccia.

Le religioni sono l’insieme di questi racconti tramandati. Le prendiamo con le pinze, molti di noi, altri le prendono per oro colato, ma per gli uni e per gli altri sono mappe consumate, più o meno attendibili, di quel mondo oscuro.

Mappe

La spiritualità ha tante forme. Ha la forma dell’arte soprattutto. La poesia, la musica, sono altri modi di far vibrare queste antenne interiori, di sentire queste radici.

Le religioni sono cose più strane. Credo siano nate come mappe. Qualcuno che ha navigato più a lungo in quel mondo interiore avrà provato a scrivere delle guide, per permettere ad altri di orientarsi. Qualcuno che ha costruito qualche ponte tra il mondo oscuro e la razionalità ha provato a mettere dei paletti, una segnaletica. A raccontare le sue esperienze. Col tempo quei paletti che spuntavano dal terreno sono diventati importanti, ci si è costruito sopra. Credo che ci abbia costruito molto qualcuno che in quel mondo non ci si era granché avventurato. Sono diventati racconti di racconti.

O peggio, qualcuno a cui quel mondo, là sotto faceva troppa paura, li ha usati per impedire che altri ci finissero. Le religioni, unite al culto della razionalità, hanno sbarrato la porta a quel mondo interiore. Soprattutto le religioni dell’occidente. Hanno dipinto dei bei disegni su quella porta.

I tesori

Io credo che millenni di questa elaborazione collettiva abbiano effettivamente prodotto tanto. Dei tesori, dei ponti, che sarebbe un peccato sprecare. Ma credo sia estremamente importante conservare il senso di precarietà, di non-certezza, almeno dal punto di vista razionale, di queste costruzioni.

Cos’è che si è scoperto, quali sono le indicazioni più importanti che ci offre questo bagaglio che ci è stato tramandato, cosa hanno in comune tutte le correnti spirituali che abbiamo ereditato ?

il mondo interiore esiste

Anzitutto che questo mondo interiore esiste, che è importante e non dobbiamo averne paura.

Che in questo mondo interiore possiamo trovare spiegazioni a cose che nel mondo di sopra, quello razionale, ci appaiono minacciose.

Perché moriamo ? Perché ci ammaliamo ? Perché, in generale, abbiamo bisogni, aspettative che non vengono soddisfatte ? Perché esistiamo ?

Tutte le grandi correnti spirituali e religiose danno risposte a queste domande. Alcune di queste risposte, peraltro, risultano accettabilissime anche sul piano razionale. Partono in generale dal constatare che le domande sopra sono malattie dell’ego.

Ci facciamo quelle domande perché ci sentiamo al centro del mondo. Appena cambiamo prospettiva, appena proviamo a vederci come cellule di un organismo più complesso quelle domande diventano ridicole.

Noi non moriamo, se per noi intendiamo la nostra specie, la vita biologica di cui siamo espressione, il mondo. Siamo solo una fase di una continua trasformazione.

Noi non ci ammaliamo, abbiamo meccanismi che reagiscono a dei cambiamenti, quelle che sentiamo come gioie/sofferenze sono forze regolatrici che ci guidano nel compimento della nostra parte in questo grande sistema.

Quanto al perché esistiamo la risposta è che non lo possiamo capire, non più di quanto possiamo immaginare che una cellula del nostro sangue capisca quanto è bella la serie “Tales From the Loop” che stanno dando su Amazon in questi giorni.

siamo parte di qualcosa di grande e buono

La gioia che questi sguardi, anche sporadici, nell’intimo del nostro essere può darci ci fa sentire immersi in qualcosa di buono, non è una citazione di Ambrogio e dei suoi cioccolatini, chiamatelo amore se volete.

i compagni di viaggio

Gli altri, intorno, sono dei compagni di viaggio. Sono immersi nello stesso plasma, stanno svolgendo un ruolo analogo al nostro. Hanno punti di vista complementari. Gli eventuali conflitti con loro sono parte del meccanismo di cui facciamo parte, non c’è bisogno di demonizzarli. L’eventuale amore (parola sbagliata, qui, forse meglio attrazione/con-passione) che proviamo nei loro confronti pure, non c’è bisogno di divinizzarlo.

Metafore diverse

Tutto questo lo possiamo raccontare con metafore diverse. Possiamo dire che siamo come onde in un mare e diventeremo di nuovo acqua o possiamo dire che siamo figli dello stesso padre, che ci ama. Ma se riusciamo a capire che queste due formulazioni dicono la stessa cosa credo sia meglio.

Verità rivelate

Le religioni sono piene di Verità Rivelate. Qualche essere superiore, o qualche grande saggio del passato che ha parlato con lui, ci ha trasmesso delle cose. E dobbiamo crederci perché arrivano da quel canale privilegiato. Da quel telefono rosso.

Non è una cosa del tutto campata in aria. Quello che arriva dal mondo interiore appare necessariamente come rivelato alla razionalità. Sbuca dal nulla e ha la capacità di imporsi come vero, lo sentiamo dentro che è vero, che è importante.

“Non calpestare le fughe” è una verità rivelata per il pazzo.

Ma adesso immaginate più pazzi che condividano la stessa intuizione, e sappiano raccontarsela l’un l’altro, confrontarne le sfaccettature, mettere il risultato in relazione col mondo razionale. Che sappiano trasformare quell’intuizione in indicazioni concrete sul come vivere meglio. Ecco che nasce una Verità Rivelata condivisa, da tramandare ai discendenti. Una saggezza di popolo.

Ai nipoti racconteremo che ce le ha dette un Dio davanti ad un roveto ardente quelle cose. È più facile così.

Ricordi, lavoro, smart work e sindacato

Ho lavorato qui parecchi anni. Questo edificio di vecchi mattoni è la Vecchia ICO (Ingegner Camillo Olivetti) di Ivrea. Pare sia del 1895.

Ai tempi in cui ci lavoravo io l’aspetto esterno era grosso modo lo stesso, eccetto per la portineria, che aveva aveva un aspetto meno da film distopico. Oggi, entrando, non ti stupiresti di incrociare qualche zombie.

Gli uffici e le officine all’interno erano un po’ più moderne, ma sto comunque parlando della fine degli anni 80 dello scorso secolo.

Lungo il lato sinistro della strada, via Jervis, si intravedono le estensioni che la fabbrica ha avuto nel corso dei decenni. La ICO, che arrivava fino alla portineria del pino (il pino si vede, che spunta tra gli edifici). Più oltre la Nuova ICO.

Qualche centinaio di metri più avanti ci sono Palazzo uffici 2 (l’ultimo arrivato) e Palazzo Uffici senza numero, quello coi top manager che arrivavano in elicottero o in Ferrari.

Quando vedete i manager arrivare in quel modo in una ditta preoccupatevi: vuol dire che sta per fallire.

Questa è l’ingresso della Vecchia ICO. Sulla destra si vedono antiche cose: un telefono, una specie di citofono e, sotto, una bollatrice a badge.

Ai miei tempi quella non c’era. Si timbrava l’ingresso all’interno con una timbratrice a schede di carta. Il famoso cartellino. Intorno alla timbratrice c’era un raccoglitore con tutte le schede dei dipendenti, tu cercavi la tua e la infilavi in questo robo meccanico che, con un bel “clang”, metteva un timbro con l’ora nella casella del giorno.

Dal sesto livello in poi si timbrava solo l’ingresso. Si supponeva, giustamente, che un sesto livello facesse un tipo di lavoro per cui l’impegno non fosse strettamente correlato al tempo passato in ditta. La timbratura aveva uno scopo puramente assicurativo.

Adesso c’è quella barra di traverso, probabilmente gli zombie non escono di lì.

Ci ho lavorato parecchi anni, ma ci ho anche abitato per diverso tempo. Nel senso che abitavo nello stesso isolato. Vedete quel lucernario a torretta che si intravede sotto il passaggio, appena più a destra e più in alto del centro della foto ? Quella era casa nostra (abitavamo al piano sotto, non nel lucernario). Al mattino scendevo a piedi e, passando per quella stradina che si intravede sul lato sinistro, entravo in ufficio. Ci mettevo il tempo di una sigaretta. Non c’erano i tornelli, le guardie ti salutavano e andavi a lavorare.

Ora si passa dalla portineria, anche se la ditta non c’è più, perché c’è una sede distaccata dell’ASL. Ci fanno fisioterapia, tra le altre cose. Stamattina ci sono andato per accompagnare Umberto che aveva una visita.

Mentre aspettavo lì fuori ho fatto due chiacchiere con un’infermiera che era uscita a fumarsi una sigaretta. Mi diceva che molti dei suoi pazienti sono ex olivettiani, che guardano con tristezza e commozione questo edificio abbandonato. Secondo lei è stato acquistato di recente da qualcuno che conta di farci qualcosa. Forse un museo. Non mi sembra una buona idea che una città si riduca a vivere di ricordi, ma tant’è.

Lavoro

Ricordo che lavoravo tantissimo. Al mattino entravo molto tardi, anche dopo le dieci e mezza o le undici. Non uscivo quasi mai prima delle otto o le nove di sera. E, dopo cena, continuavo a lavorare a casa, fin verso le due o le tre di notte. Il tempo a casa lo dedicavo, per lo più, alla formazione.

Questo sfasamento temporale dell’orario di lavoro, ricordo che si prestava bene ad una forma di collaborazione a staffetta con colleghi più mattinieri. È successo in modo decisamente efficace con Cetty e con Giovanna. Lavoravamo insieme per una parte della giornata, poi io andavo avanti da solo fino a tarda sera, lasciavo qualche nota su quello che avevo fatto e loro al mattino proseguivano di lì.

Smart Work

Adesso sento miei ex-colleghi parlare di smart working. Mi ha stupito leggere oggi, su un gruppo whatsapp di cui faccio ancora parte, un sindacalista esprimere preoccupazione sul fatto che lo smart work possa trasformarsi in un arma nelle mani del datore di lavoro per sbilanciare il rapporto di lavoro a detrimento dei dipendenti, oltre che minare il bisogno di socialità del lavoratore.

Le preoccupazioni espresse erano sostanzialmente due:

  • Lo Smart Work tende a modificare il modo in cui il lavoro viene valutato. Non più quanto tempo lavori, ma quanto bene lo fai, e, in definitiva, quanto serve quello che fai. Questo aiuta l’azienda a rendersi conto delle inefficienze, e apre la strada alla perdita del posto di lavoro per le persone meno utili.
  • Una volta assodato che determinati lavori si possono fare fuori dall’azienda, cosa impedisce di farli fare in altri paesi ? O con contratti più precari, magari a corpo ?

Il primo argomento è un vecchio cavallo di battaglia di molti rappresentanti sindacali. Lo ricordo come ricorrente in quasi tutte le ditte in cui ho lavorato.

Lo smart work evidenzia il problema, ma quello era lì già da prima, irrisolto, nascosto, e, secondo me, una delle cause principali del declino delle nostre aziende (per lo meno quelle di dimensioni medio grandi).

Misurare il lavoro

Ha davvero un qualche senso che il lavoro delle persone sia valutato in base al tempo fisicamente trascorso in un dato luogo ? Non ho esperienze di lavoro operaio, ma credo che anche in una catena di montaggio, anche nel caso del lavoro più meccanico e disumanizzante che riesco a immaginare questo tipo di valutazione abbia un sacco di limiti. Trasforma il lavoro in carcere. Toglie qualsiasi dignità a quello che fai. Ed è inefficiente per l’azienda.

Misurare invece quello che fai, quanto bene lo fai, quanto serve quello che hai fatto, reintrodurre un concetto di imprenditorialità, di professionalità nel lavoro, apre la strada ad un sacco di benefici.

Per l’azienda sono indubbi, non li cito neanche, ma anche per il lavoratore ce ne sono tanti. La soddisfazione di essere pagato di più se hai fatto bene, la spinta a migliorare, o a trovare il posto più adatto a te se sei finito in una situazione che non ti permette di esprimere le tue potenzialità.

E quest’ultimo aspetto è il punto cruciale. Il sindacalista medio è perfettamente cosciente della presenza di molte persone, in azienda, che sono fuori posto. Che non dovrebbero essere lì, che non sono adatte al lavoro che fanno.

Vale anche, e forse soprattutto, per i manager, ma lì il problema è più clientelare che sindacale.

Bilanciamento

Quindi cosa c’è sul piatto, anzi sui piatti di questa ipotetica bilancia. Da una parte la difesa del salario di persone inadatte al lavoro che fanno (o spesso non particolarmente interessate a farne qualcuno, per usare un eufemismo), dall’altra la difesa del posto di lavoro di tutti i lavoratori dell’azienda, se questa rischia di pagare queste inefficienze con la scomparsa dal mercato.

Credo sia giusto non snobbare il primo problema, che va risolto cercando di capire se per quel dato lavoratore non sia possibile trovare mansioni più adatte, ad esempio. O ricorrendo, in casi estremi, a forme di assistenza, solidarietà.

Ma il secondo, il permettere alle aziende di essere efficienti e competitive, credo non dovrebbe essere assolutamente perso di vista, anche dal sindacato.

Mi sembra manchi al sindacato italiano (contrariamente a quello tedesco, mi par di capire) questo sentirsi parte dell’azienda. Questo vedere l’azienda non come perpetua controparte, ma come barca su cui si viene trasportati.

Non so, visione ingenua forse. Ma se lo smart work rischia di porre il problema maggiormente in luce, ben venga, direi.

Quanto al secondo timore, quello del “my work has gone to India”, credo sia abbastanza privo di fondamento.

Un’azienda che funziona ha tutto l’interesse a tenersi stretti i collaboratori validi. Ha tutto l’interesse che ci siano rapporti personali che funzionano. Il parlare la stessa lingua, aver vissuto la storia di un dato lavoro, avere le competenze specifiche, sono tutti elementi che proteggono da quel tipo di esternalizzazione, e anche da forme più precarie di contratto.

D’altra parte, peraltro, un recupero di imprenditorialità da parte dei lavoratori non sarebbe un male. Se un dato lavoro richiede competenze così generiche da poter essere svolto da qualcuno in Pakistan vuol dire che un lavoratore italiano che ha lo stesso tipo di competenze può misurarsi su un’arena più vasta anche lui.

Tutto considerato anche sotto questo aspetto questa botta del Covid potrebbe finire per averci fatto bene.