Democrazie in pericolo

Ho intravisto in libreria un libro di Maurizio Molinari intitolato La nuova guerra contro le democrazie. Non l’ho ancora letto, forse lo farò, ma il tema mi interessa e me ne son fatto fare una breve sintesi da ChatGPT.

Non voglio discutere del libro senza averlo letto, ma siccome ho avuto un’immediata reazione di tristezza alla parola democrazia sento il bisogno di analizzare questa reazione e condividerla.

Diciamo che sono felice di vivere in uno dei paesi occidentali. Paesi in cui puoi criticare chi sta al governo senza che qualcuno venga ad arrestarti. Paesi in cui i governanti vengono eletti da un voto popolare e vi è una certa divisione e bilanciamento dei poteri. Mi chiedo. Però, se i governi di questi paesi possano davvero, solo per queste cose, fregiarsi del titolo Governo del Popolo.

La Polis

Partiamo dall’antica Atene, il posto in cui questo concetto è nato. Cos’era la democrazia per chi abitava allora da quelle parti? E perché era una cosa buona?

Si trattava del prendere decisioni sui problemi comuni trovandosi insieme nell’agorà. Trovarsi in piazza a discutere, votare, governare insieme.

Era davvero un governo di tutti? Certo che no, anzitutto gli schiavi e le donne erano esclusi da questo privilegio, ma anche per gli altri la situazione non era omogenea. Era permesso formalmente a tutti di intervenire nell’assemblea, ma quanto alla possibilità che le proprie proposte venissero ascoltate le cose non erano così automatiche. Bisogna considerare che la retorica era una vera e propria arte, coltivata e migliorata grazie all’istruzione impartita dai sofisti, o da maestri di eloquenza e filosofia. Questi insegnamenti erano più accessibili a chi aveva i mezzi economici per pagare lezioni private. Inoltre, gli individui facoltosi o provenienti da famiglie aristocratiche partivano già con un vantaggio di reputazione: il loro nome era noto, così come la loro rete di conoscenze e di alleanze. Essere ricchi, famosi o influenti non garantiva automaticamente di avere la meglio in un dibattito, ma di certo agevolava la possibilità di essere presi sul serio, ascoltati con rispetto e, in ultima analisi, di orientare le decisioni dell’assemblea.

Insomma non era un sistema perfetto neppure quello, ma era meglio di un sistema autocratico. Concentrare il potere in un solo individuo o in un gruppo ristretto di persone anzitutto espone al rischio di abusi. È forte la probabilità che chi detiene il potere lo impieghi più per salvaguardare il suo stato, e i suoi interessi privati, che per il bene della comunità.

E quand’anche si trattasse di un sovrano illuminato (un terno all’otto) avremmo un cervello solo a prendere decisioni. Molto peggio di una comunità che elabora i problemi da numerosi punti di vista. Se anche il sovrano di avvalesse di consiglieri li avrebbe scelti lui, rifletterebbero, almeno in parte il suo modo di vedere.

L’architettura piramidale del potere

L’esperienza ateniese (e di poche altre polis) è stata un fenomeno piuttosto breve e circoscritto. Al declino delle città-stato greche i modelli di potere che prevalsero furono le autocrazie, aristocrazie e oligarchie. L’idea del “potere al popolo” riemerse parecchi secoli dopo, con qualche vagito di partecipazione, per lo più di stampo corporativista, nel tardo medioevo, ma soprattutto con le rivoluzioni americana e francese. Qui il problema si presentava però in maniera molto più complessa.

Atene poteva contare due o trecento mila persone, gli aventi diritto alla partecipazione all’assemblea potevano essere (escludendo donne, schiavi e stranieri) trentamila persone, togliendo anche quelli non intenzionati a partecipare, si arrivava a numeri tra i tre e i diecimila. Difficile riunirli e dare la parola a tutti, difficile farli votare, ma in qualche modo si riusciva.

Governare con lo stesso criterio una intera nazione non poteva essere fatto radunando, anche solo chi era interessato, su una collina.

La soluzione che si è imposta è stata una struttura di potere piramidale, con un organismo centrale composto di rappresentanti eletti direttamente dalla base, o, più spesso, da altri nodi di potere via via più locali. Governo nazionale, governi regionali, comunali e così via. In genere questa struttura ricalcava l’organizzazione amministrativa delle monarchie che hanno preceduto i governi basati su una costituzione e sull’elezione di rappresentanti. In molti casi i nuovi parlamenti hanno semplicemente affiancato la monarchia senza sostituirla tout-court.

Ora, aldilà dei pregi e difetti dell’eleggere un rappresentante e fidarsi che faccia davvero le scelte che avresti fatto tu, c’è una immediata considerazione da fare sul come lo si sceglie questo rappresentante.

Abbiamo visto che l’assemblea della Polis greca poteva contare su qualche migliaia di persone. Da quante persone è composta una delle nostre circoscrizioni elettorali? Dipende dal tipo di elezione e dal posto in cui votiamo, ma si parte, per i più fortunati, ad esempio un valdostano in un elezione regionale (per i piccoli comuni si può essere ancora più fortunati, ma l’impatto è minimo) da poche decine di migliaia di persone. Si arriva a decine di milioni di persone per le cinque circoscrizioni macroregionali nelle elezioni europee. Decisamente troppe per vedersi faccia a faccia e discutere.

Se quindi voglio partecipare, informarmi, conoscere personalmente il candidato che voterò, assicurarmi che la pensi come me, almeno sulle cose essenziali, controllare che stia operando bene, come faccio?

Partiti

A questa necessità provvedono i partiti. La nostra costituzione li definisce in termini abbastanza vaghi nell’articolo 49: «Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale.», aggiunge poi che devono “concorrere con metodo democratico” alla determinazione della politica nazionale. Di fatto nessuno dei nostri partiti credo lo faccia. I partiti oggi assomigliano più a un’impresa commerciale che vuole venderti un prodotto che all’agorà della Polis ateniese. Un partito è un sistema di persuasione che usa le armi della pubblicità per comprare consenso. Consenso che verrà usato da un gruppo ristretto di persone per gestire il potere secondo le proprie inclinazioni e, spessissimo, secondo gli interessi clientelari degli aderenti. La cosa più lontana dalla democrazia che si possa immaginare.

Alcuni partiti, penso al PCI e alla DC, in parte al PD di oggi, hanno provato a costituire forme di coinvolgimenti e discussione locali. Circoli e associazioni hanno, in qualche misura, permesso ai singoli di dire la loro, ma sempre nell’ambito di macro scelte, in genere ideologiche, pre costituite e apparati di potere centrale la cui genesi è in genere difficile da tracciare.

Interessante e lodevole il tentativo del Movimento 5 Stelle di usare un sistema informatico a supporto di una discussione collettiva. Tentativo viziato da poca trasparenza dello strumento, scarsissima partecipazione (rispetto al numero dei votanti) e, comunque, forte controllo centrale.

Quindi?

democrazia digitale

Il problema fondamentale di riuscire a prendere decisioni in tanti, oggi non può che avvalersi di sistemi digitali.

Che in fondo abbiamo già. Se dovessimo eleggere qual è il veicolo che nella nostra epoca offre la maggior espressione di democrazia credo sceglieremmo i sondaggi.

Pensateci. Abbiamo già un sistema collaudato per capire cosa pensa la maggior parte di noi su qualunque tema. Non solo, possiamo avere questi dati disaggregati per fasce sociali, età, e un numero impressionante di altre categorizzazioni. Stiamo già, di fatto, votando continuamente, su tutto. Chi prende decisioni che riguardano le nostre vite potrebbe tenere in gran conto questo sentire collettivo. Magari non sempre lo fa. O ne tiene conto non tanto per il bene collettivo, quanto per interessi di altra natura. Forse un governo di tecnici, scelti a caso, a rotazione, e che governino in base a sondaggi sarebbe già una forma di democrazia migliore di quelle attuali.

Forme di partecipazione digitale come quella dei 5S, ma anche social network moderati (penso a Kialo), potrebbero sicuramente aiutare, non tanto a esprimere una volontà popolare tramite un voto, quanto a formare i cittadini, ad educare alla partecipazione, all’attenzione alla cosa pubblica.

maturità

C’è un aspetto fondamentale che troppi ignorano: la democrazia, qualunque forma assuma, richiede un livello di maturità collettiva elevato. Non possiamo sperare in un sistema perfetto se non cresciamo come società, se non impariamo a valorizzare chi agisce per il bene comune e a isolare chi cerca il potere per tornaconto personale. Serve una cultura della partecipazione, un ambiente in cui il cittadino non sia un consumatore da blandire, ma un soggetto dotato di un pensiero critico. In questo la tecnologia potrebbe davvero darci una mano: non tanto come mezzo per votare, ma come strumento di educazione diffusa, capace di premiare la trasparenza e di mettere in luce le competenze di chi vuole davvero contribuire.

Se non ne prendiamo atto, se non interiorizziamo questa esigenza di crescere come cittadini prima ancora che come utenti di una piattaforma (o peggio, come fanatici di qualche ideologia) rischiamo di trovarci sempre con un surrogato di democrazia tra le mani.

E chissà che proprio queste spinte, minacce e contraddizioni che oggi assediano le nostre “quasi-democrazie” da ogni lato non finiscano per darci uno scossone, costringendoci, finalmente, a trovare il coraggio di imboccare una strada nuova.

3 pensieri su “Democrazie in pericolo”

  1. Anch’io sono “felice di vivere in uno dei paesi occidentali, paesi in cui puoi criticare chi sta al governo senza che qualcuno venga ad arrestarti”: sperando che questa situazione duri nel tempo, cosa di cui comincio seriamente a dubitare!

    Mi spaventa il “sentire collettivo” che, quasi sempre, si nutre di percezioni piuttosto che di dati oggettivi. La gran parte degli italiani, solo per fare qualche esempio, è convinta che sia in corso una vera e propria invasione di migranti, che le nostre città siano più insicure che mai e che la presidente del consiglio stia governando il Paese come meglio non si potrebbe. Percezioni, sensazioni, impressioni non solo opinabili ma oggettivamente … false.

    Se, dunque, è condivisibile il principio di “prendere decisioni in tanti”, continuo a pensare che il filtro e la decantazione delle sensazioni di una maggioranza di cittadini siano indispensabili e che, dunque, i Partiti politici debbano ancora svolgere un ruolo fondamentale, nonostante tutto!

    P.S.
    Qual è, però, lo scriverei senza apostrofo …

    1. Corretto lo strafalcione: grazie.
      Se il ruolo dei partiti è davvero quello di decantare le reazioni di pancia dei cittadini, non credo lo stiano svolgendo bene. Spesso le peggiorano. Quello che fanno realmente è perpetuare il proprio potere attingendo proprio alle sensazioni di pancia.

  2. E’ bello confrontarsi anche su questi temi, che dovrebbero essere molto più “concreti” degli altri sui quali amabilmente ci scontriamo qui (religione, meditazione, evoluzione,…) e invece sono altrettanto profondi.

    Mi piace che tu elabori e proponi idee anche innovative, se non addirittura rivoluzionarie (ricordo il sistema di tassazione a punti).
    In questo caso però mi ritrovo molto nella posizione di PiGreco.

    La tua visione è ancora una volta utopistica, Vins.
    I sondaggi in effetti danno il quadro di ciò che pensa la “pancia” dei cittadini, non ciò che davvero sarebbe meglio per loro.
    Siamo (non mi tiro fuori, eh!?) troppo condizionabili dai proclami, slogan, promesse, manifestazioni, dei politici di turno, espressione dei partiti.
    Quindi in sostanza siamo sempre lì…

    Non voglio sembrarti disfattista.
    Anzi, per dimostrarmi ottimista, rilancio la carta del Despota Illuminato.
    Ok, è una scommessa forse ancor più disperata della tua.
    Ma se dobbiamo sperare… facciamolo in grande! 🙂

    P.S.: a me invece devi spiegare cos’è il terno all’8

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