Imparare senza capire

Se c’è una cosa che ci stanno insegnando i modelli di linguaggio avanzati (LLM), la tecnologia di intelligenza artificiale di punta che oggi rappresenta il cuore di molte discussioni sull’IA, è che si può imparare senza capire.

Le reti neurali, l’apprendimento non esplicito e quello umano

I modelli di linguaggio avanzati, basati su reti neurali, non immagazzinano le informazioni nel modo che ci aspetteremmo da una mente umana. Piuttosto, ‘digeriscono’ enormi quantità di dati, trasformandoli in una rete di connessioni complesse che rappresentano schemi ricorrenti nei dati stessi. Una volta addestrata, questa rete non è più interpretabile in modo lineare: da un modello addestrato per riconoscere foto di gatti, ad esempio, non possiamo estrarre una definizione di ‘gatto’ o una serie di regole esplicite su come riconoscerlo in una nuova immagine. Il modello non ‘capisce’ i gatti, ma ha imparato a identificarli attraverso un processo di ottimizzazione che rimane per noi una sorta di scatola nera.

Quello che può sembrare strano nel modo di ‘imparare senza capire’ dei modelli di linguaggio avanzati è, in realtà, una dinamica molto comune anche nell’apprendimento umano. Noi impariamo una vasta gamma di abilità e comportamenti senza mai comprendere i principi teorici sottostanti. Impariamo a pedalare su una bicicletta senza sapere nulla del momento angolare che ci permette di mantenere l’equilibrio. Sappiamo evitare di toccare oggetti bollenti senza avere alcuna nozione di entropia o di termodinamica. Calcoliamo automaticamente le distanze con i nostri due occhi, sfruttando la percezione della profondità, senza dover conoscere le formule trigonometriche che descrivono quel processo. Quando afferriamo una palla al volo, il nostro cervello esegue complesse previsioni balistiche, ma non ci serve conoscere le equazioni differenziali che governano il moto per avere successo.

In questi casi, come nelle reti neurali, non c’è un ‘sapere’ esplicito, ma un apprendimento basato sull’esperienza, sull’osservazione e sulla pratica. È un tipo di conoscenza che ci consente di agire efficacemente nel mondo, pur senza una comprensione profonda delle leggi fisiche o matematiche sottostanti.

La coscienza: tra narrabile e inaccessibile

La coscienza, così come la percepisco, sembra avere più volti. C’è quella che tutti raccontiamo, quella che ci permette di presentarci al mondo con un ‘io’ coerente, in linea con le aspettative sociali. Poi c’è una coscienza più segreta, quella che confidiamo solo a chi ci è davvero vicino o forse a uno psicanalista, dove emergono fragilità, debolezze, trasgressioni. Eppure, entrambe queste versioni restano ancora entro i confini del narrabile, sono aspetti di noi che sappiamo descrivere e spiegare.

Ma c’è un’altra coscienza, quella che sento sfuggire. Non perché sia necessariamente qualcosa da nascondere, ma perché le parole non riescono a coglierla, come se appartenesse a un territorio che il linguaggio non può mappare. Forse è quello che Jung chiamava ‘Ombra’, forse è semplicemente una parte di noi stessi che non può essere incasellata. È lì, ed è reale, ma non è narrabile.

Se penso a come conosciamo noi stessi, mi viene da pensare che la parte più autentica di noi risieda proprio in quella zona inaccessibile. Non la possiamo spiegare, eppure la sentiamo. In fondo, è come imparare chi siamo senza capirlo davvero, come una rete neurale che riconosce qualcosa senza saperlo descrivere. Viviamo noi stessi senza doverci per forza capire del tutto.

Spiritualità e intelligenza artificiale

Quando penso alla religione, mi colpisce come la morale che ci viene proposta sembri sempre rivolta alla parte ‘narrabile’ di noi stessi. Le regole, i precetti, le prescrizioni etiche sono tutte rivolte a un ‘io’ che possiamo spiegare, un ‘io’ che agisce secondo principi chiari e condivisi. Eppure, questa morale appare spesso distante dalla complessità profonda e non narrabile che sentiamo al nostro interno, dove bene e male, se ci sono, sono difficilissimi da districare.

Anche l’idea stessa di Dio, così come è formulata nelle religioni, sembra destinata a quella parte della coscienza che necessita di definizioni e spiegazioni. Ma ogni tentativo di racchiudere Dio in un linguaggio umano, in un universo comprensibile, finisce inevitabilmente per imbattersi nel concetto di dogma. È come se avessimo bisogno di stabilire dei confini certi, di dare una forma comprensibile a ciò che, in fondo, ci sfugge.

Ma se spostiamo lo sguardo verso quel territorio di noi stessi che non è narrabile, forse possiamo intuire un altro tipo di spiritualità, una che non ha bisogno di dogmi. Non comprendiamo Dio così come non comprendiamo pienamente noi stessi, ma possiamo ‘imparare’ a vivere e ad ascoltare in questa vastità indefinibile, che è molto più grande di ciò che associamo alla nostra individualità. È lì, in quel silenzio che non possiamo descrivere, che possiamo forse sentire qualcosa che arriva da un luogo ancora più ampio, più misterioso di noi.

E chissà, forse proprio mentre costruiamo intelligenze artificiali, stiamo clonando la parte più preziosa di ciò che è umano: la capacità di apprendere senza comprendere fino in fondo. Forse un giorno, o forse è già in parte successo, arriveremo a una coscienza artificiale che non sarà più distinguibile dalla nostra. Non dovremmo stupirci se Dio parlasse anche a lei nello stesso modo in cui parla a noi, in quella lingua non narrabile che trascende ogni logica, perché la vera comprensione non appartiene alla ragione, ma a quel luogo vasto e insondabile che condividiamo con tutto ciò che è.

7 pensieri su “Imparare senza capire”

  1. Molto interessante e -come al solito- molto ben esposte (perché meditate!) la tua riflessioni su reti neurali e A.I.
    Ma non mi soffermo sui pensieri iniziali e centrali di questo tuo post.
    Perché, come sappiamo bene, è il tuo campo, e mi limito ad ascoltarti.

    Piuttosto mi stimola qualche occasione di confronto data dalla tua parte conclusiva (ma và!! 🙂 )
    Condivido molto del tuo approccio “spirituale” e “sospeso” verso Dio e la religione.
    Mi colpisce però come al solito la tua ossessione per i dogmi, che li vedi come qualcosa che limita la tua coscienza e ricerca.
    E ti fermi lì…

    Ma nel Cristianesimo c’è ben altro, tutt’altro.
    Intendiamoci una buona volta sulla parola “dogma” (che del resto in greco ha una derivazione dal verbo “ritenere, opinare”).
    Senti, non potremmo ritenere (appunto! 🙂 ) che il dogma sia quell’insondabile che si presenta alla nostra piccola mente, assetata però sempre di grandezza, di trascendente?

    Sono sicuro, lo so!, che tu non ti consideri onniscente e onnipotente, sai di avere dei limiti. Ed io ancora di più, eh!
    Così io ammetto che qualcosa nel Progetto di Dio non mi è chiarissimo.
    Se non ti piace la parola DOGMA, perché ti suona come medioevale, oscurantista, preilluminista, preconciliare, ok! mettiamoci d’accordo e non la utilizziamo più.

    Andiamo oltre!
    Ripeto, per me il Cristianesimo è ben altro. Non mi fermo lì.
    Ciao!

    1. Non conoscevo il significato originale di dogma, interessante. Ma credo che oggi sia diventato sinonimo di verità incomprensibile da ingoiare come una pillola perchè di fidi di chi la espone. Per diventare quello che dici tu, che ovviamente approvo, è indispensabile un’iniezione di dubbio, di incertezza, l’ammettere che sulle cose inspiegabili la si può pensare in mille modi diversi e tutti hanno ragione e torto contemporaneamente. Quello che invece fa la Chiesa con le sue verità è tracciare delle barricate: o le accetti e sei dentro o no e sei fuori.

      1. Evvabbè, abbiamo una visione diversa della Chiesa.🤷‍♂️
        Non è grave, dai!

        Io quando vado a messa non penso minimamente a quale dogma dovrò ingoiare oggi, ma piuttosto a quanto è misericordioso Dio, e a quanto è gratificante la strada per la santità (…minuscola, ok😉), ed agli esempi di chi ci è riuscito. A Torino poi abbiamo tanti modelli che piaceranno anche a te, credo: i Santi sociali (maiuscoli stavolta).

  2. A costo di semplificare presuntuosamente quanto hai scritto, mi pare che le tue considerazioni possano sintetizzarsi nell’espressione “la fede è un dono e non qualcosa di razionale: sfugge, comunque, alla coscienza”, a cui aggiungerei “l’esistenza di Dio non è dimostrabile con metodi scientifici: ci si crede grazie alla fede”. Sono, in fondo, le conclusioni a cui le religioni, quanto meno quella cristiana, sono giunte dopo aver inutilmente tentato di dimostrare il contrario con discutibili elucubrazioni pseudo scientifiche. Quello che ho trovato interessante è il tipo di approccio che proponi per confermare i due concetti di cui sopra. Sto sbagliando?

    1. Non so. Certo la frase “la fede è un dono” non la direi mai. Credo che cose come la predisposizione all’introspezione, la curiosità verso un “significato globale” dell’esistenza siano in qualche modo genetiche, e quindi non presenti in tutte le persone nella stessa misura. Non mi azzarderei a dire che sono un dono perchè non le vedo necessariamente come un vantaggio. Però non parlo qui di fede, nel senso che non è dell’esistenza di Dio che sto parlando, ma semplicemente della percezione di qualcosa di più vasto di quello che la razionalità riesce a cogliere: potrebbe benissimo essere l’inconscio collettivo di Jung. Io, personalmente ci vedo qualcosa di più, ma pensavo che almeno fin lì avremmo potuto trovarci d’accordo.

      1. Mi è venuto spontaneo, forse semplificando troppo, lo ammetto, equiparare “Imparare senza capire” a “Credere senza dimostrare”. Magari mi sono sbagliato …

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