Ho lavorato qui parecchi anni. Questo edificio di vecchi mattoni è la Vecchia ICO (Ingegner Camillo Olivetti) di Ivrea. Pare sia del 1895.
Ai tempi in cui ci lavoravo io l’aspetto esterno era grosso modo lo stesso, eccetto per la portineria, che aveva aveva un aspetto meno da film distopico. Oggi, entrando, non ti stupiresti di incrociare qualche zombie.
Gli uffici e le officine all’interno erano un po’ più moderne, ma sto comunque parlando della fine degli anni 80 dello scorso secolo.
Lungo il lato sinistro della strada, via Jervis, si intravedono le estensioni che la fabbrica ha avuto nel corso dei decenni. La ICO, che arrivava fino alla portineria del pino (il pino si vede, che spunta tra gli edifici). Più oltre la Nuova ICO.
Qualche centinaio di metri più avanti ci sono Palazzo uffici 2 (l’ultimo arrivato) e Palazzo Uffici senza numero, quello coi top manager che arrivavano in elicottero o in Ferrari.
Quando vedete i manager arrivare in quel modo in una ditta preoccupatevi: vuol dire che sta per fallire.
Questa è l’ingresso della Vecchia ICO. Sulla destra si vedono antiche cose: un telefono, una specie di citofono e, sotto, una bollatrice a badge.
Ai miei tempi quella non c’era. Si timbrava l’ingresso all’interno con una timbratrice a schede di carta. Il famoso cartellino. Intorno alla timbratrice c’era un raccoglitore con tutte le schede dei dipendenti, tu cercavi la tua e la infilavi in questo robo meccanico che, con un bel “clang”, metteva un timbro con l’ora nella casella del giorno.
Dal sesto livello in poi si timbrava solo l’ingresso. Si supponeva, giustamente, che un sesto livello facesse un tipo di lavoro per cui l’impegno non fosse strettamente correlato al tempo passato in ditta. La timbratura aveva uno scopo puramente assicurativo.
Adesso c’è quella barra di traverso, probabilmente gli zombie non escono di lì.
Ci ho lavorato parecchi anni, ma ci ho anche abitato per diverso tempo. Nel senso che abitavo nello stesso isolato. Vedete quel lucernario a torretta che si intravede sotto il passaggio, appena più a destra e più in alto del centro della foto ? Quella era casa nostra (abitavamo al piano sotto, non nel lucernario). Al mattino scendevo a piedi e, passando per quella stradina che si intravede sul lato sinistro, entravo in ufficio. Ci mettevo il tempo di una sigaretta. Non c’erano i tornelli, le guardie ti salutavano e andavi a lavorare.
Ora si passa dalla portineria, anche se la ditta non c’è più, perché c’è una sede distaccata dell’ASL. Ci fanno fisioterapia, tra le altre cose. Stamattina ci sono andato per accompagnare Umberto che aveva una visita.
Mentre aspettavo lì fuori ho fatto due chiacchiere con un’infermiera che era uscita a fumarsi una sigaretta. Mi diceva che molti dei suoi pazienti sono ex olivettiani, che guardano con tristezza e commozione questo edificio abbandonato. Secondo lei è stato acquistato di recente da qualcuno che conta di farci qualcosa. Forse un museo. Non mi sembra una buona idea che una città si riduca a vivere di ricordi, ma tant’è.
Lavoro
Ricordo che lavoravo tantissimo. Al mattino entravo molto tardi, anche dopo le dieci e mezza o le undici. Non uscivo quasi mai prima delle otto o le nove di sera. E, dopo cena, continuavo a lavorare a casa, fin verso le due o le tre di notte. Il tempo a casa lo dedicavo, per lo più, alla formazione.
Questo sfasamento temporale dell’orario di lavoro, ricordo che si prestava bene ad una forma di collaborazione a staffetta con colleghi più mattinieri. È successo in modo decisamente efficace con Cetty e con Giovanna. Lavoravamo insieme per una parte della giornata, poi io andavo avanti da solo fino a tarda sera, lasciavo qualche nota su quello che avevo fatto e loro al mattino proseguivano di lì.
Smart Work
Adesso sento miei ex-colleghi parlare di smart working. Mi ha stupito leggere oggi, su un gruppo whatsapp di cui faccio ancora parte, un sindacalista esprimere preoccupazione sul fatto che lo smart work possa trasformarsi in un arma nelle mani del datore di lavoro per sbilanciare il rapporto di lavoro a detrimento dei dipendenti, oltre che minare il bisogno di socialità del lavoratore.
Le preoccupazioni espresse erano sostanzialmente due:
- Lo Smart Work tende a modificare il modo in cui il lavoro viene valutato. Non più quanto tempo lavori, ma quanto bene lo fai, e, in definitiva, quanto serve quello che fai. Questo aiuta l’azienda a rendersi conto delle inefficienze, e apre la strada alla perdita del posto di lavoro per le persone meno utili.
- Una volta assodato che determinati lavori si possono fare fuori dall’azienda, cosa impedisce di farli fare in altri paesi ? O con contratti più precari, magari a corpo ?
Il primo argomento è un vecchio cavallo di battaglia di molti rappresentanti sindacali. Lo ricordo come ricorrente in quasi tutte le ditte in cui ho lavorato.
Lo smart work evidenzia il problema, ma quello era lì già da prima, irrisolto, nascosto, e, secondo me, una delle cause principali del declino delle nostre aziende (per lo meno quelle di dimensioni medio grandi).
Misurare il lavoro
Ha davvero un qualche senso che il lavoro delle persone sia valutato in base al tempo fisicamente trascorso in un dato luogo ? Non ho esperienze di lavoro operaio, ma credo che anche in una catena di montaggio, anche nel caso del lavoro più meccanico e disumanizzante che riesco a immaginare questo tipo di valutazione abbia un sacco di limiti. Trasforma il lavoro in carcere. Toglie qualsiasi dignità a quello che fai. Ed è inefficiente per l’azienda.
Misurare invece quello che fai, quanto bene lo fai, quanto serve quello che hai fatto, reintrodurre un concetto di imprenditorialità, di professionalità nel lavoro, apre la strada ad un sacco di benefici.
Per l’azienda sono indubbi, non li cito neanche, ma anche per il lavoratore ce ne sono tanti. La soddisfazione di essere pagato di più se hai fatto bene, la spinta a migliorare, o a trovare il posto più adatto a te se sei finito in una situazione che non ti permette di esprimere le tue potenzialità.
E quest’ultimo aspetto è il punto cruciale. Il sindacalista medio è perfettamente cosciente della presenza di molte persone, in azienda, che sono fuori posto. Che non dovrebbero essere lì, che non sono adatte al lavoro che fanno.
Vale anche, e forse soprattutto, per i manager, ma lì il problema è più clientelare che sindacale.
Bilanciamento
Quindi cosa c’è sul piatto, anzi sui piatti di questa ipotetica bilancia. Da una parte la difesa del salario di persone inadatte al lavoro che fanno (o spesso non particolarmente interessate a farne qualcuno, per usare un eufemismo), dall’altra la difesa del posto di lavoro di tutti i lavoratori dell’azienda, se questa rischia di pagare queste inefficienze con la scomparsa dal mercato.
Credo sia giusto non snobbare il primo problema, che va risolto cercando di capire se per quel dato lavoratore non sia possibile trovare mansioni più adatte, ad esempio. O ricorrendo, in casi estremi, a forme di assistenza, solidarietà.
Ma il secondo, il permettere alle aziende di essere efficienti e competitive, credo non dovrebbe essere assolutamente perso di vista, anche dal sindacato.
Mi sembra manchi al sindacato italiano (contrariamente a quello tedesco, mi par di capire) questo sentirsi parte dell’azienda. Questo vedere l’azienda non come perpetua controparte, ma come barca su cui si viene trasportati.
Non so, visione ingenua forse. Ma se lo smart work rischia di porre il problema maggiormente in luce, ben venga, direi.
Quanto al secondo timore, quello del “my work has gone to India”, credo sia abbastanza privo di fondamento.
Un’azienda che funziona ha tutto l’interesse a tenersi stretti i collaboratori validi. Ha tutto l’interesse che ci siano rapporti personali che funzionano. Il parlare la stessa lingua, aver vissuto la storia di un dato lavoro, avere le competenze specifiche, sono tutti elementi che proteggono da quel tipo di esternalizzazione, e anche da forme più precarie di contratto.
D’altra parte, peraltro, un recupero di imprenditorialità da parte dei lavoratori non sarebbe un male. Se un dato lavoro richiede competenze così generiche da poter essere svolto da qualcuno in Pakistan vuol dire che un lavoratore italiano che ha lo stesso tipo di competenze può misurarsi su un’arena più vasta anche lui.
Tutto considerato anche sotto questo aspetto questa botta del Covid potrebbe finire per averci fatto bene.
Le obiezioni paventate dal sindacalista esistevano anche ai miei tempi – mi riferisco al Paleolitico superiore, per inquadrare il periodo! – ed hanno costituito una delle basi fondanti su cui si è edificato lo scatafascio dell’Olivetti e dell’intero Paese. Non solo quello, naturalmente, ma il sindacato non si è tirato indietro, garantendo un suo bel contributo. Valutare il lavoro di una persona con criteri il più possibile oggettivi è, a mio parere, essenziale al benessere non solo materiale della società. Saper riconoscere il merito, intendo dire, le capacità e, in definitiva, la produttività. Quest’ultima caratteristica è sempre stata invisa al sindacato perché, non senza motivi validi, la riteneva e la ritiene possibile fonte di discriminazione in quanto potenzialmente influenzata da altre variabili, prima fra tutte la collocazione politica e la “combattività” dei lavoratori nel sostenere le piattaforme rivendicative. Tale posizione è perennemente rimasta a livello ideologico, senza che mai si cercasse un accordo sul problema reale che era, e resta, la condivisione di protocolli concordati riguardo ai criteri oggettivi di valutazione. Obiettivo difficile da raggiungere, senza dubbio, ma non impossibile con tutti gli errori e gli ineliminabili favoritismi che, comunque, comporterebbe. In questo nostro Paese, il merito ho un peso pochissimo importante nel determinare avanzamenti di carriera, riconoscimenti economici e considerazione sociale. La politica, in questo, è stata in prima linea, fornendo da sempre pessimi esempi di esercizio del potere decisionale, fino all’aberrazione di scegliere l’intera, o quasi, classe dirigente grazie ad un opinabile curriculum vitae ed un voto su una piattaforma on line opaca e gestita da privati.
Lo smart work, contrariamente a quanto si crede semplificando molto, non significa affatto “lavorare da casa” e basta! Una definizione sintetica ed adeguata potrebbe essere: “incremento significativo di autonomia, responsabilità, collaborazione e flessibilità supportate da adeguati strumenti e tecnologie”. La conseguenza sarebbe, o dovrebbe essere, un incremento di produttività e una migliore alternativa per misurare il merito individuale e di gruppo. Che ci piaccia o no, quando possibile, il “lavoro intelligente” dovrebbe essere la regola, non l’eccezione: è il futuro, e l’Italia questo futuro l’ha sempre subito, piuttosto che promuoverlo. Deallocare le attività lavorative, che siano fisiche o intellettuali, è una realtà già oggi ben consolidata per motivi che nulla hanno a che fare con l’adozione dello smart work e non sarà certo questo nuovo approccio ad incidere in negativo o in positivo.
L’incipit che hai riportato come prima e fondamentale obiezione del sindacalista, mi pare illuminante: “Lo smart work tende a modificare il modo in cui il lavoro viene valutato. Non più quanto tempo lavori, ma quanto bene lo fai, e, in definitiva, quanto serve quello che fai”. È, a mio giudizio, esattamente l’obiettivo che dovremmo raggiungere tutti al più presto, con le necessarie garanzie, naturalmente!
Bellissimo argomento. Spunti molto stimolanti.
Dopo aver letto anche il commento di Pino, non avrei nulla da aggiungere o da contestare.
E forse è meglio così…. Non vorrei scrivere cose di cui pentirmene! 🙂
Posso dire invece che mi è sembrato molto pertinente, su quel gruppo che ti ha dato ispirazione, l’intervento di un collega che ha puntualizzato la differenza tra Smart Working e Home Working. Forse questa distinzione basterebbe a rasserenare l’azienda e anche i sindacati!
E quindi nessuno farebbe più gaffe infelici tipo “che lo smartworking non diventi una moda”. …OPS! Avevo detto di non voler scrivere cose sconvenienti! 😀