When I’m Sixty Four

Ok. Da oggi sono vecchio anche secondo il criterio dei Beatles.

Doing the garden

Digging the weeds

Who could ask for more?

2 6

A due alla settima non credo di arrivarci, ma non si sa mai.

È un bel numero 64.

Emana un senso di positività.

Oggi i sistemi operativi migliori sono a 64 bit. Già dai tempi del Commodore 64 se ne presagiva la potenza.

La sua rappresentazione in numeri romani ne esprime chiaramente la vocazione politica (LXIV = Lode per Italia Viva).

Potrebbe essere usato anche per correggere evidenti errori del nostro passato, come i sessantaquattro gatti in fila per otto e senza resto (sulla metrica c’è un po’ da lavorarci, ma matematicamente è molto più elegante).

19

Epperò c’è il virus. Che ci chiude in casa, che farà morire molti di noi.

Ieri bella chiacchierata con Antonio, Giuseppe e Gianni. Ho scoperto l’ennesimo programma per videoconferenza (anzi, ne abbiamo provati un paio, per l’occasione).

Si parlava del virus. Ci si chiedeva se avesse un significato. Sicuramente ce l’ha: tutto ha un significato. Si parlava di come andrà.

pessimismo

Ho messo a fuoco il fatto di essere parecchio pessimista. Sì, io scopro quello che penso parlando con gli altri, o scrivendo. O forse non è pessimismo, nel senso che vedo le cose con un certo distacco. Comunque ho detto cose che sono suonate inquietanti agli orecchi degli altri.

Secondo me ci si sta illudendo molto sui tempi di uscita dalla crisi sanitaria, e si sta sottovalutando l’aspetto economico.

Lo scenario che intravedo, catastrofico per qualcuno, è che alla fine ne usciremo con più morti di quelli che prevedeva il Boris Johnson prima ora e avremo anche distrutto l’economia.

Succederà questo: riusciremo a tenere il lockdown rigoroso ancora per poco. Si sta già slabbrando, ma le pressioni per riaprire le aziende sono forti. Come è sempre più forte la poca pazienza (poco giustificata) dei più attivi di noi, che mal sopportano la vita reclusa. E come è sempre più forte (ma questa è più comprensibile) la mal sopportazione della clausura da parte dei meno fortunati, quelli che vivono in spazi più ristretti, senza balconi, giardini. Di quelli che non hanno le risorse economiche per affrontare un lungo periodo di inattività.

Pressioni, insomma, che unite alle prime notizie confortanti sui numeri dei contagi ci faranno allentare la stretta. E il virus è ancora lì fuori ad aspettare. Altre ondate, altri picchi.

E intanto l’economia va a pezzi. L’economia non sono le quotazioni delle borse, e nemmeno i capitali dei ricchissimi, che ammesso che vengano scalfiti lo saranno di poco, anzi, è più probabile che molti di loro trovino il modo di arricchirsi anche in questa situazione. L’economia che crolla è la gente che ha fame, o ha paura, o ha paura e fame. L’economia che crolla sono i servizi che spariscono e diventano sempre più inefficienti. L’economia che crolla sono le merci che non si trovano più, perchè nessuno più le produce e le trasporta.

Tanta gente che ha paura e fame distrugge qualsiasi ordine sociale. Sommosse.

Oggi si vedono i primi segnali. Ci sono già famiglie che hanno problemi a comprare i beni essenziali. Ed è bello che si tenti di supplire con varie forme di solidarietà. Ma la solidarietà funziona se i poveri sono pochi e quelli solidali tanti. Se questo rapporto tende ad invertirsi non è più possibile. Non si chiama più solidarietà, si chiama lotta di classe quando va bene, rivoluzione o guerra civile se siamo meno fortunati.

L’economia che crolla fa molti più morti del virus.

Spero di sbagliarmi.

decrescita

Antonio si oppone a questa visione, dicendo che con un’organizzazione migliore della società si può vivere tranquillamente tutti lavorando molto meno. In fondo, fa notare, molta gente va a lavorare per fare lavori assolutamente inutili.

E ha ragione: da una parte ci sono molte aziende carrozzone, aziende inefficienti che a vario titolo sopravvivono solo grazie a contributi statali (in forma di mercati captive, pensate al militare o alla gestione statale della sanità, della previdenza, pensate alle compagnie aeree o telefoniche), dall’altra ci sono aziende che producono cose insensate, se non dannose (pensate alla pubblicità), pensate a quanti avvocati ci sono in Italia, a quanti notai, a quanta gente il cui lavoro è far girare la burocrazia inutile.

Pensate ai bisogni indotti, a quanta gente lavora per comprare beni di cui si potrebbe tranquillamente fare a meno (l’ultimo modello di cellulare, di televisore, di auto, di vestiti e chissà quant’altro). Forse anche senza arrivare ad una gestione sovietica dello stato e neanche per forza ad una decrescita più o meno felice si potrebbero fare dei passi per permetterci di ridurre il nostro impegno di tempo nel lavoro e il nostro impatto sull’ambiente.

Comprendo che c’è del buono in queste considerazioni, ma credo si debba tenere presenti un paio di cose:

  • I paesi ricchi possono oggi permettersi queste inefficienze perché sfruttano risorse e lavoro di quelli più poveri. Per cui lo stesso tipo di ragionamento sarebbe difficile da applicare a tutto il pianeta.
  • Alla lunga il vero problema è l’esplosione demografica. Questa sofferenza, che da noi si manifesta nell’essere costretti a lavorare per la maggio parte del nostro tempo a fare cose inutili, e in altri posti si manifesta nel lavorare molto per servire altri, riesce a contenere la crescita della popolazione. Detta in soldoni: un mondo di gente pagata per stare a casa assistiti da servizi e sanità funzionanti non starebbe in piedi: esploderebbe in un eccesso di natalità, nell’arco di una o due generazioni, forse meno. Un mondo ideale, che auspico ovviamente, in cui ognuno lavora il giusto, non può prescindere da un governo mondiale e da uno stretto controllo della natalità, con tutti i problemi morali che la cosa comporta.

la politica inadeguata

Tornando coi piedi per terra, e al momento attuale, Giuseppe fa notare la sua sfiducia nella classe dirigente attuale, e in generale sulla situazione politica del paese. Chiaramente è il nocciolo del problema. Abbiamo tutti abbastanza chiari una serie di problemi da risolvere. Abbiamo una serie di soluzioni proposte, più o meno vaghe, più o meno condivise. Ma per farne qualcosa, per trasformare queste critiche e queste proposte in miglioramento serve la politica.

Serve far emergere governanti capaci, che sappiano creare consenso intorno a proposte concrete. E sappiano attuarle.

Diversamente da Giuseppe io credo che queste persone esistano, semplicemente non sappiamo farle venire alla ribalta. Oggi la scena politica e ingombra di attori che hanno saputo creare consenso intorno a loro, ma si mostrano poi incompetenti e incapaci quando riescono a mettere le mani sulle leve del potere.

Forse il problema non sta nei governanti, ma nella nostra capacità, come popolo, di sceglierli. Continuiamo a sceglierli per tifo, perché difendono la nostra squadra del cuore. Li scegliamo perché sanno difendersi nei talk show. Sardine incluse, purtroppo.

non sono ancora nati

Concludo con un pensiero di Gianni, che mi è piaciuto.

Chi è che potrà tirarci fuori da questo pasticcio ?

Se è necessaria una forte maturazione delle persone per costruire una civiltà che superi tutti gli scogli elencati sopra, è pensabile che siano quelli vivi oggi ad uscirne ?

Possono essere quelli che oggi sono vecchi, che magari hanno qualche idea, ma non l’energia per attuarla ?

O possono essere quelli che oggi sono giovani, e hanno vissuto finora nella bambagia, senza essere costretti a fronteggiare veri problemi, e si trovano spaesati di fronte allo scenario di guerra all’orizzonte, di fronte alla possibile perdita dei loro privilegi.

Forse no. Forse a fare un passo avanti saranno i giovanissimi di oggi, o quelli non ancora nati. Quelli che prenderanno coscienza del mondo con la crisi già in atto.

E allora i tempi saranno necessariamente molto lunghi.

i miei secondi 64 anni

Pur volendo essere ottimista, non so se mi basteranno i prossimi 64 anni per vedere il risultato di questo cambiamento.

Comunque ne riparliamo al 2 7.

1 commento su “When I’m Sixty Four”

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