Retired


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Ieri Vito mi ha mandato questo messaggio. Questo post è la risposta.

Passo importante, la pensione: merita scrivere qualcosa: una specie di lapide su questo lunghissimo periodo della mia vita che si è chiuso. Altrettanto importante dell’apertura di quella parentesi: ricordo ancora, in mezzo ad altre sensazioni, come l’euforia di aver finalmente un lavoro, di aver in qualche modo trovato un mio posto nel mondo, e le ambizioni, e le aspettative, il senso di panico per il tempo che veniva incanalato in una dimensione nuova, preoccupante. Il non poter più disporre delle mie giornate come facevo prima: una ricchezza che davo per scontata e, improvvisamente, non c’era più. Non poter più vedere gli amici quando volevo, non poter più decidere giorno per giorno, ora per ora, cosa fare.

Lavoro, Realizzazione e Riposo

Il dono più affascinante della pensione è il senso di riposo, credo. La possibilità di alzarti più tardi, magari di tornare a dormire se sei stanco durante il giorno, o di fare un pisolino dopo pranzo. Ma anche, in generale, il poter adattare il tuo tempo al ritmo generale delle cose: uscire a passeggiare o in bici, magari solo a far la spesa, nelle ore di sole. Cucinare e mangiare quello che ti piace o ti fa bene, senza dipendere dalle scelte di una mensa aziendale. Essere a casa quando arriva un corriere con un pacchetto di Amazon 😁. Fare dei lavori in casa, o semplicemente esserci quando arriva un idraulico o un muratore. Godersi i propri spazi, la casa, di giorno, col sole, invece di vederla solo in qualche ritaglio al mattino o alla sera o nei frenetici fine settimana in cui cerchi di recuperare tutto quello che avresti voluto/dovuto fare nel resto del tempo. Divertimento e riposo compresi.

Detto questo, a parte gli aspetti su elencati, decisamente piacevoli, è un peccato che si passi la maggior parte del tempo lavorativo ad aspettare che finisca. Il lavoro, di per sé è la dimensione che maggiormente valorizza l’essere umano. E’ probabilmente la porta migliore che abbiamo per quel po’ di felicità che ci è concessa. Siamo veramente felici solo in quei magici momenti in cui siamo persi nel fare qualcosa che ci viene bene, qualcosa che sappiamo fare ed è utile al mondo intorno, qualcosa che, in qualche misterioso modo, aggancia la parte più profonda di noi, il nostro piccolo ingranaggio, alla complessa macchina del mondo. E forse la parte economica del lavoro, quella che, a volte, consideriamo più importante, quanto guadagniamo, è solo il meccanismo ormonale che ci guida verso la collocazione migliore.

Insomma il lavoro è una bella cosa, il fatto che la percepiamo spesso diversamente è solo il segno di qualcosa che non va. Nel modo in cui viene organizzato, nella società, nel modo in cui ci hanno educati a pensarlo.

Ho avuto la fortuna di lavorare sia in ditte piccolissime (il mio primo lavoro è stato in una ditta in cui ero l’unico dipendente: facevo il softwarista, l’hardwarista, il segretario, le consegne e il supporto clienti, l’ufficio acquisti, il commesso, e lavavo i vetri e i pavimenti) che in realtà molto grandi, con decine di migliaia di dipendenti, passando per piccole società in cui ancora conoscevi i padroni. Ho potuto farmi un’idea abbastanza precisa, dei vantaggi e svantaggi di un tipo di organizzazione rispetto all’altra. Il problema comune a tutte, direi, è la difficoltà ad innovare. Nelle aziende piccole perché innovare costa, e quindi si spreme il limone fin che ce n’è per continuare a esistere, nelle grandi, dove le risorse ci sarebbero, perché non si sa bene dove agire: chi comanda non lo sa, per cui delega. Delega a persone diverse la produzione e l’innovazione e il risultato è che chi deve innovare non sa dove agire, tenta di importare soluzioni di moda, che in genere non si adattano. Alla cultura, alle persone, e comunque non fanno presa perché gli altri, quelli che fanno, vengono misurati su obiettivi completamente diversi.

Questo problema dell’idra, il mostro a più teste, è presente in tutte le grosse aziende: aspetti diversi e conflittuali tra loro vengono allocati a responsabilità diverse. Il risultato è che chi si occupa di sicurezza, o di acquisti, ad esempio, farebbe scelte completamente diverse da chi progetta o produce, e non c’è, ne ci può essere, nessuno che armonizza questi cervelli.

In definitiva il problema è l’applicazione del feudalesimo a una realtà multidimensionale. Non funziona. Mi spiego meglio. Le grosse aziende, anche se paladine del libero mercato, che tutto sommato è una forma di democrazia, o, almeno, di governo cooperativo, mediato da uno strumento che chiamiamo denaro, di fatto sono organizzate con gerarchie feudali: c’è uno in testa che comanda, in genere su un insieme di cose troppo complesse perché uno solo le possa capire, e allora delega a un pugno di altri. Come li sceglie in genere è già un problema. Come è stato scelto lui è un problema anche maggiore: gli azionisti hanno a cuore che qualcuno faccia fruttare i loro soldi e quindi scelgono uno che sa di soldi. Ma in genere non sa di scarpe, o di pomodori o elettronica o qualsiasi altra cosa sia il core business dell’azienda. Il capo in testa delega in base a qualche tipo di organizzazione studiata a tavolino, e che nessuno ha mai dimostrato funzioni. Immagino che il metro sia che si fa in genere così. E di lì in cascata, ogni gradino trattiene i suoi soldi e i suoi onori e ri-delega in basso più o meno con gli stessi criteri, fino ad arrivare a qualcuno che si arrabatta per far funzionare qualcosa, generalmente lottando contro gli altri pezzi dell’azienda. È ovvio, infatti, che a quel punto ogni ramo persegue obiettivi separati, molto spesso in conflitto con quelli degli altri rami. Quando qualcosa funziona è perché, più o meno casualmente, ogni tanto, qualcuno con un minimo di competenza del ruolo che occupa, si impone e, sgomitando, barando, in genere aiutato da qualche capo che si rende conto della sua incompetenza e lo lascia agire, usa tutto il potere di cui riesce a impossessarsi per agire in modo sensato.

Le aziende generano e nutrono mostri …

Una struttura feudale del genere non funziona, ma non lo sa. Resta in vita perché l’investimento di capitali ha tempi di verifica lunghi e perché, in vario modo, drena risorse dalla società, innescando, ad esempio, vari tipi di contrafforti economici, in nome, in genere, della difesa dell’occupazione, o dell’italianità, o, spesso, meccanismi di lobbying, corruzione, miopia dei sindacati o dei governi.

In una struttura del genere prosperano mostri. Di diversi tipi:

  • Il Mastro Proia Iungi U Frusc’llar. Viene dal paese di mio padre, in Puglia: il maestro nell’arte di porgere i giunchi a quello che fa i cesti di vimini. L’esperto di un mestiere che esiste solo lì, che non avrebbe senso da nessun’altra parte. Il ganglio nervoso di un organismo insensato, che persegue obiettivi locali, senza mai chiedersi se e come quello che fa si relaziona con il motivo di esistenza dell’azienda nel suo insieme.
  • L’arrampicatore. Quello che magari ha capito che è tutto una finzione, ma se ne approfitta. Sgomita. Tesse relazioni. Lecca culi, ma solo finché serve, poi ne uccide il proprietario. Accumula potere, ma non per poi usarlo per dare finalmente un senso al lavoro suo e di altri, ma per occupare ruoli sempre più pagati. Quelli per cui l’azienda è un’arena in cui duellare. Quelli per cui i colleghi sono avversari da sconfiggere o pedine da utilizzare. Ecco, per loro il termine retired è adatto al momento del pensionamento: ritirarsi dalla tenzone.
  • Il parassita. Sono la maggior parte. Quelli che neanche si pongono il problema del fatto che il lavoro possa/debba avere un senso. Passivi. Quelli che fanno finta di lavorare, appena non sono troppo in vista si fanno i cazzi loro. Quelli per cui la massima ambizione lavorativa è essere messi da parte. Quelli per cui timbrare il cartellino è il lavoro.
  • Le puttane. La versione orgogliosa del parassita: stesso giudizio sull’utilità del lavoro, stesso atteggiamento verso il senso dell’azienda, ma non possono accettare/rischiare di essere messi da parte. E allora lavorano: fanno quello che gli si dice, che i capi gli dicono. Ma attaccano l’asino dove vuole il padrone, anche quando si rendono conto che è inutile o è un danno per l’azienda. Mi paghi? Faccio quello che vuoi, non una virgola di più. Non un briciolo di senso critico. Mai una spinta a migliorare, un suggerimento.

Quanti ne ho incontrati, di questi mostri. Con quanti mi sono scontrato. Spesso non si rendono neanche conto di esserlo.

… e ospitano meraviglie

E in mezzo a tutto questo disastro umano ed economico qui e là trovi delle persone. Delle persone belle. Gente che magari è stata mostro (anch’io penso di esserlo stato, mostro di tutti i tipi sopra) e ad un tratto si è risvegliata. Bruchi diventati farfalle. Restano lì, ovviamente, conservano, a volte, la parvenza di mostro, un po’ ingentilita magari, ma restano lì in mezzo. In una situazione economica diversa si muoverebbero, forse. E però cominciano a volare, a splendere. Sono quelli che danno valore ai rapporti con le persone, quelli che ti rendono meno penoso andare al lavoro ogni giorno. Quelli che, comunque, cercano di coltivare una professionalità. Quelli che continuano a sperare che qualcosa cambi, che ne colgono i segni, che, nel loro piccolo, fanno qualcosina perché succeda. Quelli che puoi arrivare a considerare amici.

Tanti, anche di questi ne ho trovati tanti. Un abbraccio.

Hobbies

Beh, ora sono qui, e proverò a inventarmi qualche modo per impiegare il poco tempo che mi rimane dalla lista di cose che mia moglie mi lascia da fare ogni mattina.

Un parziale elenco di idee potrebbe essere: andare in bici, fare passeggiate, andare in piscina, visitare musei, leggere, ascoltare musica, imparare qualche lingua, qualche nuovo linguaggio di programmazione, fare qualche corso su Coursera, imparare a suonare qualche strumento, partecipare a qualche progetto open-source, crearne qualcuno, provare a fare qualche lavoro freelance, scrivere su questo blog, andare a pescare, coltivare l’orto, allevare galline, o cavallette, giocare con l’arduino e il black berry, o la stampante 3d, fare fotografie, magari col drone.

Lo so: dovevo andare in pensione a 13 anni.

9 pensieri su “Retired”

  1. Sei speciale, gia lo sapevo ma ora di piu. X gli hobbies ti consiglio di classificarli tra quelli che fanno bene a te e agli altri, quelli solo a te e quelli solo agli altri; pesarne quindi il dispendio economico e temporale ed infine fare ogni giorno il cazzochetiparechetantoèuguale. Ma sopratutto cerca di fare le cose che ti fanno sentire tredicenne ( incluso le seghe). Ci vediamo a pesca.

    1. Grazie Antonio,
      fare ogni giorno il cazzochetiparechetantoèuguale mi sa che sarà la scelta più battuta ;-), ma chissà, magari riesco ancora a fare qualcosa di meglio. Un abbraccio.

  2. Allora, tanto per iniziare, ti dico che sono seriamente preoccupato per te: voglio sperare che tu abbia fatto firmare la liberatoria a quel tuo amico Vito!

    Io, fossi in lui, ti potrei denunciare per indebito utilizzo di comunicazioni private.
    Senti, ti suggerirei di transare per via extragiudiziale, facendolo magari partecipare agli utili di questo blog.
    Tanto, potresti sempre pagarlo virtualmente in bitcoin!! 🤑

    A parte gli scherzi, ti confesso che la mia riflessione su questo tuo articolo è stata generata innanzitutto …dal titolo!
    Riflettevo su questo termine inglese per indicare il pensionamento e non mi sembra bellissimo. 🙁
    RITIRATO fa pensare ad uno che abbandona (come in effetti hai evidenziato anche tu nella caratterizzazione di un “mostro”), o peggio ancora: uno che *viene ritirato*, scartato perché obsoleto o difettoso…
    Che triste!

    Piuttosto, pescando nella memoria della mia precedente esperienza lavorativa, mi viene in mente il termine *QUIESCENZA*.

    Da _quiescens_=che riposa, in quiete.
    Ecco io voglio pensarti come un quiescente, in meditazione, esattamente come quel tipo della copertina del libro “Come diventare un Budda in cinque settimane”.
    D’altra parte cercando quiescenza sul dizionario, viene associato ad un momento contingente, tipico ad es. di _vulcano in q._: stato di riposo temporaneo, pronto a riprendere la sua piena attività.

    Vabbè, si capisce che sto cazzeggiando, perché stavolta non trovo proprio nulla da contestarti, nessun appiglio per metterti in difficoltà, … insomma mi è piaciuto proprio TANTO questo tuo articolo, solo non so se più nella forma o più nel contenuto.

    *In sostanza, carissimo VINS, uno come te NON può essere “ritirato” dal mercato!*

    Ora la smetto, sennò finisco per provocarti (o -rmi…?) la stessa emozione che hai mostrato al momento del nostro saluto, all’uscita del ristorante.

    Buon cammino, Vins!🤗

    1. Alla fine non è neanche così brutto *essere ritirato* perchè obsoleto o difettoso. E’ nell’ordine delle cose: ad un certo punto non si funziona più come prima ed è giusto lasciare spazio a gente nuova. Una cosa che non ho detto nel post, e che però ho notato in questi ultimi anni, è che anche se magari tu funzioneresti ancora, è facile che diventi incompatibile con l’ambiente che ti circonda. Hai una storia che ti ha plasmato in un certo modo, buono o cattivo che sia, e sei meno malleabile. Non ti adatti più facilmente ad un organizzazione che inevitabilmente “ragiona” in modo diverso. Forse è solo un altro limite dell’organizzazione gerarchica, ma sta di fatto che, utopie a parte, è difficile crearne di diverse (forse nelle startup è diverso).
      E comunque sì, il quiescere mi si adatta di più.
      Grazie Vic.

  3. Il “parziale elenco di idee” è ambizioso (… imparare qualche lingua, qualche nuovo linguaggio di programmazione, imparare a suonare qualche strumento … Invece di QUALCHE, comincerei da UNA lingua, UN linguaggio di programmazione e UNO strumento!) ma non riporta la scelta più significativa: non fare una beata minchia di niente, almeno di tanto in tanto!

    1. In effetti comincerò dalla beata minchia 😀. Comunque sto cercando corsi gratuito/economici di tedesco in zona (c’è una università della terza età che sembra ne faccia, se no c’è babbel). Il linguaggio di programmazione da approfondire è clojurescript, e sto collezionando materiale online, lo strumento è il pianoforte e ho downloadato un mare di metodi (devo scegliere quello che mi piace di più, magari cerco anche un maestro/corso gratuito/economico).
      Tiè 😜

  4. Guarda, proprio in questi giorni sto leggendo “La chiave a stella” di Levi.
    Mi hai ricordato che voglio rileggermi anche “Il sistema periodico”.
    Grazie Antò. 🙂

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